domenica 19 aprile 2009

Tra le raccoglitrici della piana di Sibari: paga da fame e ricatto occupazionale

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Laura Eduati
Castrovillari (Cs) - nostra inviata

Tredici centesimi di aumento in busta paga sono troppi. Questa è almeno l'opinione delle aziende agricole della piana di Sibari, ricca zona di frutteti e ortaggi che esporta il 60% del prodotto all'estero. Prodotti di alta qualità, certificati all'origine, che in tempo di crisi planetaria non sembrano avere subito contraccolpi. Le raccoglitrici e le confezionatrici di frutta, in maggior parte donne, guadagnano appena 5,58 euro l'ora per un lavoro stagionale faticoso, d'estate con le mani a rovistare i rami dei pescheti con quaranta gradi, per otto, nove o persino undici ore, senza neanche poter andare in bagno.
Lo scorso luglio i sindacati sono riusciti a strappare un nuovo contratto che farebbe guadagnare loro 5,71 euro, una miseria identica. Ma le ditte, tranne la Tocci, non vogliono applicare le nuove tabelle di retribuzione. E dire che non sono semplici cooperative, bensì aziende di caratura internazionale come Torre di Mezzo, Osas, Fratelli Nola, ciascuna con 500-800 dipendenti. «Se continua così torneremo ai tempi dei braccianti agricoli dei nostri nonni», proclama amaramente Emilia, delegata Cgil con quattro figli e un marito che lavora come lei alla Fratelli Nola come potatore, una qualifica maggiore.
Perché la questione non sono soltanto i 13 centesimi di euro negati: qui le donne sono assunte quasi esclusivamente come braccianti, mentre gli uomini ottengono mansioni e salario migliori, e nonostante il 70% circa della manodopera sia femminile, i caposquadra sono invariabilmente uomini. Uomini come i sindacalisti che le seguono e dovrebbero difendere i loro diritti. «Le donne costano meno» sintetizza Mario, marito di Emilia. E con questo vuole dire che le aziende preferiscono assumere donne anche come potatrici poiché comunque il salario è sempre quello, infimo, delle raccoglitrici.
«I padroni devono rispettare l'aumento contrattuale o agiremo per vie legali» promette Michele Tempo, segretario di comprensorio Flai-Cgil. Nelle prossime settimane potrebbe scattare lo sciopero. L'arma delle aziende è potente: non soltanto lo spettro della crisi, ma anche quello della delocalizzazione. Il ricatto occupazionale: una delle aziende ha già acquistato cinquecento ettari nei pressi di Hammamet, pronti per accogliere centinaia di pescheti. Il timore dei braccianti della piana di Sibari è quello di vedere chiudere i cancelli delle tenute agricole per sempre, come accadde per i cotonifici che vennero costruiti dalle aziende settentrionali negli anni '70 con i contributi pubblici e poi lentamente morirono di agonia negli anni '90.
Il contratto agricolo viene applicato anche alle confezionatrici della frutta che ricevono pesche e mandarini dalle aziende e devono distribuirle nelle cassette o dividerle nelle retine che poi troviamo nei supermercati. Lavoro, quest'ultimo, prettamente maschile perché computerizzato e dunque specialistico. Meno faticosa anche se meccanica la mansione delle confezionatrici come Franca, unghie leopardate e trucco perfetto: «Noi almeno abbiamo un tetto sopra la testa e non soffriamo le intemperie come le raccoglitrici». Franca è delegata sindacale come le altre e lavora alla Osas, che da queste parti è come dire «lavori all'Enel»: un privilegio, o una garanzia. Il privilegio di lavorare al chiuso, senza doversi bardare come contadine coi cappelli a larga tesa e gli scarponi grossi e informi. Nei campi basta un acquazzone improvviso, o una gelata, per sospendere la raccolta della frutta e quella giornata è persa. Vengono pagate a ore, e non esiste indennizzo per maltempo quando invece le aziende possono ricevere contributi straordinari per le avverse condizioni climatiche. Lo stipendio arriva a mille euro al mese nella stagione estiva che comincia a maggio e finisce a settembre, si raccoglie anche di domenica «perché la frutta non aspetta», dopo 35 o 40 anni di fatica riusciranno ad incassare appena 540 euro di pensione.
Queste donne non si arrendono. Loro, la battaglia sindacale all'interno delle aziende, la conducono con coraggio e malinconia. La malinconia di una generazione che ha vissuto gli anni '70 e ora teme di «fare un salto indietro». E non soltanto per l'offensiva dei padroni: «Siamo noi le prime a cedere» confessa Cristina, che emigrò a Torino nel 1970 e dopo due anni si fece assumere alla Fiat. Il racconto di quei formidabili anni le accende lo sguardo: «Facevamo picchetti, continui scioperi, mica entravano gli operai. Qui in Calabria la gente è come morta, accetta qualsiasi condizione col terrore di perdere il lavoro». Cristina lavora come confezionatrice lontano da qui, lontano dalla piana di Sibari dove almeno le braccianti sono sindacalizzate e difendono i 13 centesimi di aumento. A Corigliano le aziende agricole fanno il bello e il cattivo tempo, scrivono sulla basta paga che guadagni 6 euro l'ora e in mano te ne danno 3/4 per nove ore. «E se non ti va bene, smammi».
Giuseppina lavora nello stesso stabilimento, gli anni scorsi portava le braccianti con il furgone per 30 euro al giorno. L'accordo con la proprietà è chiaro: se lavori senza dare noie, magari il prossimo anno arriva un aumento. Dell'1%. «E per paura di perdere a' jurnata, stai zitta e accetti queste condizioni».
Nella piana di Sibari come a Corigliano, nessuna di queste donne riesce a vivere con il proprio stipendio. E molte devono far fronte a mariti disoccupati, oppure alla vedovanza. Giuseppina è single e dunque è costretta a vivere coi genitori, benché non giovanissima: «Non potrei permettermi un affitto». E il marito di un'altra Giuseppina è tornato definitivamente da Forlì dove faceva il muratore, ormai non valeva la pena restare perché l'affitto dell'appartamento succhiava quasi l'intero stipendio.
Sia come sia, i sindacati sono convinti che lentamente le condizioni di lavoro di queste braccianti sia migliorato negli ultimi anni. Per esempio ora gli enti locali hanno istituito un servizio di trasporto che accompagna le donne al lavoro da Castrovillari, Saracena, Acquaformosa e Firmo, a orari flessibili e persino a chiamata, il biglietto costa 1,5 euro. Prima esistevano i caporali che coi camioncini passavano nei paesini della piana e raccoglievano le braccianti per tre euro, uno sconto pesante sulla busta paga.
«Il sindacato siamo noi», avverte Giovanna, delegata Cgil della Osas, «siamo noi che fronteggiamo in prima linea i problemi e se non li risolviamo la colpa è nostra». Questo ripetono, le raccoglitrici e le confezionatrici: nessuno farà mai abbassare loro la testa, se non vorranno. E implicitamente prendono atto del cambiamento epocale, «è cambiata la politica e nessuno difende i nostri diritti». La politica, come no. Spesso le aziende spiegano ai lavoratori che tredici centesimi di aumento sono troppi poiché non hanno ancora ricevuto i finanziamenti dell'Unione europea o perché i mercati internazionali, maghrebini e spagnoli in primis, fanno troppa concorrenza. Oppure, altra questione, che l'Italia importa prodotti non certificati a prezzi bassissimi e dunque la frutta e gli ortaggi della Calabria perdono attrattiva per i clienti. «Questi non sono nostri problemi - sbotta Emilia - questi sono problemi che l'azienda deve porre ai politici perché altrimenti noi scontiamo ogni cosa e pare che i nostri stipendi siano sempre a perdere per la proprietà».
Il cambiamento della filiera si abbatte ancora una volta sulle donne della piana di Sibari. Ora che le aziende agricole vendono direttamente ai grossisti senza confezionare la frutta, sta lentamente scomparendo la figura delle cinquantuniste, le confezionatrici assunte per 51 giorni l'anno quando il ritmo del lavoro è pesante. Le raccoglitrici invece devono fare fronte all'introduzione di una nuova varietà di pesco, il vaso catalano, qualità simile ma forma diversa che consente una raccolta rapida, e cioè meno giorni di lavoro. Le condizioni, quelle, non cambiano mai: quando il sole picchia come un tamburo, le braccianti si avviano al raccolto coperte dalla testa ai piedi, il ronzìo dei carretti nelle orecchie. Non sono rari gli svenimenti. E il lavoro rimane uguale se sei incinta, fino al settimo mese. L'unico sollievo: le compagne che sollevano i pesanti cesti per evitarti la fatica. Franca, viso aperto e lunghi capelli biondi, sorride: «Eppure non vorrei mai lavorare al chiuso come le confezionatrici, preferisco la campagna con i suoi profumi e la vista che si perde nei pescheti».

1 commento:

  1. Si tratta di un'evidente "ritorno al passato". Un passato fatto di insopportabile sfruttamento e direi, anche di umiliazioni.
    L'obiettivo dei padroni (benchè camuffato con formule e termini inglesi) è solo quello di riportare i lavoratori e le lavoratrici indietro di almeno 100 anni.
    Perciò: o unifichiamo le lotte o questi qua ci cucinano bene bene. O meglio, mal male.
    Ciao

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