di Alberto Burgio
su Il Manifesto del 28/04/2009
Che quest’anno Berlusconi, per la prima volta dalla sua «discesa in campo» nel ’94, abbia preso parte alle celebrazioni del 25 aprile non è una vittoria della sinistra. Non è un punto a favore dell’antifascismo. È un successo della destra e di Berlusconi, che ha impresso il proprio segno anche sulla festa della Liberazione. Ne è rimasto lontano fin quando parteciparvi lo avrebbe costretto a rendere onore alla lotta partigiana. Vi ha preso parte nel momento in cui ha potuto ridisegnarla a propria immagine e somiglianza, spogliandola dall’antifascismo ed emendandola da ogni riferimento ai comunisti. Il risultato è rilevante. In questa Italia priva di oggettività, dove è possibile dire tutto senza tema di smentite, dove ogni giorno televisioni e giornali reinventano la storia ad uso dei potenti, il 25 aprile non è più il ricordo della Liberazione dal nazifascismo, in primo luogo ad opera dei partigiani comunisti. È la festa della de-comunistizzazione della nostra storia.
Le parole dette da Berlusconi ad Onna lo dimostrano nel modo più netto. Il problema non è dire o non dire «viva la Resistenza» e neppure tributare formali omaggi ai partigiani mentre ci si inchina alla memoria dei repubblichini «in buona fede». Il problema è espungere i comunisti, spingerli ai margini della storia italiana, confinarli nel ghetto dei totalitarismi. Questo è l’intento del «premier» (e il suo punto di contatto con il segretario del Pd). Con ciò Berlusconi non chiude affatto i conti col passato, come scrive Augusto Minzolini sulla Stampa nel suo esercizio di piaggeria meglio riuscito. Al contrario, legittima il passato, «superando il carattere antifascista» della Liberazione.
Come siamo arrivati a tanto? Qualche tempo fa (sul manifesto del 31 marzo) Ida Dominijanni, d’accordo con Perry Anderson, ha risposto che la colpa ricade in primo luogo sul Pci, sull’«ipoteca idealista» dell’eredità gramsciana, su Togliatti che non impose la de-fascistizzazione del Paese, su Berlinguer che non capì l’offensiva populista dell’industria culturale berlusconiana e ripiegò sul terreno morale. È una tesi paradossale. Fermi restando i gravi limiti dell’azione del Pci (un tema che deve essere affrontato con serietà e onestà intellettuale), sembra più verosimile la tesi opposta: Berlusconi dilaga perché i comunisti sono ridotti a poca cosa. Piuttosto che con Gramsci e Togliatti, non converrebbe prendersela con chi ha gettato alle ortiche quell’eredità mentre già infuriava la guerra neoliberista contro il lavoro? Con chi ha smantellato il Pci contribuendo in misura determinante a rendere minoritaria la cultura di classe nel Paese? Non converrebbe interrogarsi sulle cause oggettive e soggettive di questo impressionante episodio di trasformismo, per cui milioni di comunisti italiani si sono sciolti come neve al sole nel giro di un lustro o poco più? Quel che attende di essere indagato è il «caso italiano» degli anni Novanta: la conversione neoliberista di gran parte del gruppo dirigente post-berlingueriano e il suo appassionato impegno nella «modernizzazione» del Paese a suon di privatizzazioni e precarietà.
Berlusconi occupa lo spazio che gli si lascia. Proprio Gramsci, riflettendo sulle rivoluzioni passive, sostiene che spesso la forza del vincente è la debolezza della controparte. Un paio di giorni fa questa osservazione tornava in un articolo del Guardian. «Il Signor Berlusconi deve il successo alla sua audacia e in gran parte alla profonda debolezza dei suoi avversari». Da qui occorre partire. Per questo suscita perplessità anche l’intervento di Marco Revelli sul manifesto del 25 aprile. Certo, l’indignazione per il riemergere dell’Italia fascista è sacrosanta, ma non basta opporle l’Italia di Ruffini e Bobbio. È una risposta omissiva e debole, oltre che storicamente non consistente. Una risposta che lascia scoperto proprio il vasto territorio (quello del conflitto di classe e della lotta operaia contro il capitalismo) sul quale oggi la destra si espande e si consolida. Può spiacere – spiace a molti, anche a sinistra – ma la Resistenza è stata soprattutto comunista, l’antifascismo italiano è stato soprattutto comunista, la Costituente è stata segnata in profondità dall’impegno del Pci e la Costituzione repubblicana, che Berlusconi dice «sovietica», sarebbe impensabile senza il contributo dei comunisti, senza la loro esperienza e cultura politica.
Per paradosso, anche a sinistra si rappresenta un 25 aprile de-comunistizzato, somigliante a quello per cui lavora Berlusconi. Non è questa la strada per contrastare la Vandea che rischia di sommergerci. Reagire implica il coraggio delle proprie idee e anche l’orgoglio della propria storia. Nessuna celebrazione retorica. Nessuna apologia. Al contrario, una riflessione critica, problematica, disposta a denunciare limiti ed errori. Ma rimozioni e abiure no, quelle servono soltanto – al di là delle intenzioni – a dare man forte al revisionismo della destra.
http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=28844
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