martedì 7 aprile 2009

Perché in Italia la terra uccide più che in Giappone?

da Liberazione di oggi

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Tonino Perna

La tragedia che ha colpito la regione abruzzese ci pone immediatamente una domanda: quante vite si sarebbero potute risparmiare se le attività umane fossero state più rispettose dell'ambiente e dei codici di sicurezza edili? E' una domanda classica del nostro tempo quando ci troviamo di fronte a queste tragedie e non ci arrendiamo più al Destino cieco e baro. Per secoli, in Europa, di fronte ai terremoti si è invocata la punizione divina come causa prima del disastro, così come per le pandemie ed altre tragedie che l'umanità non riuscendo a spiegarsi trovava facile affidare ad una insondabile logica divina. Ma, dall'era del Lumi e della rivoluzione francese, i grandi progressi compiuti in campo scientifico e tecnologico ci hanno offerto spiegazioni puntuali. Oggi possiamo affermare che sul piano delle conseguenze umane e materiali, le catastrofi naturali non esistono perché si sono trasformate in catastrofi sociali e politiche. In base ai dati degli ultimi due decenni, un terremoto della stessa magnitudo che colpisca il Giappone fa pochi morti e danni materiali, mentre se colpisce la Turchia o l'Italia fa centinaia di morti e cancella interi paesi. Lo stesso avviene con gli uragani che colpiscono, con la stessa intensità, agli Stati Uniti e il Centro America, con esiti profondamente diversi, come ha fatto notare in un pregevole articolo Wolfgang Sachs, direttore del Wuppertal Institute, ponendo con forza la questione della «giustizia ambientale». Lo stesso è avvenuto tre anni fa quando lo tsunami si è abbattuto sulle coste del sud est asiatico provocando una tragedia umana e sociale di immani dimensioni che abbiamo presto archiviato perché ci poneva di fronte a delle precise responsabilità. Ed è questo il punto: terremoti, uragani, alluvioni, sono imprevedibili all'origine, nel tempo e nello spazio, ma non nelle conseguenze che dipendono unicamente da noi, dal tipo di società che stiamo costruendo. Se si pensa a quale montagna di dollari si sta spendendo per salvare le banche, al migliaio di miliardi di dollari che impieghiamo ogni anno per le spese militari, e lo confrontiamo con quanto si spende in sicurezza, prevenzione ed uso sociale della tecnologia, la contraddizione appare stridente ed insostenibile. Se le case venissero costruite con i più moderni criteri antisismici, se si realizzasse una rete di sensori che fanno scattare per tempo l'allarme quando parte uno tsunami o si avvicina un uragano/tifone, se si realizzasse un piano di prevenzione degli incendi forestali fondato sulla responsabilità sociale degli attori, allora avremmo usato il sapere sociale, la tecnologia, ai fini del miglioramento della vita umana: non riusciremo a fermare le catastrofi naturali, ma ne ridurremo al minimo le conseguenze sociali e territoriali.

Ma una società come la nostra, fondata sulla accumulazione infinita del capitale come unico scopo, non ha interesse a utilizzare la tecnologia e le conoscenze scientifiche per salvare delle vite umane, se questa operazione non produce ulteriori profitti. Il vero business è oggi fondato sulla ricostruzione e non sulla prevenzione. Facciamo le guerre anche per questo. Se poi la società oltre che sul profitto è fondata sulla truffa, come nel caso della nostra bella Italia, allora le cose si fanno maledettamente più insopportabili.
La tragedia che ha colpito le popolazioni abruzzesi è la conseguenza diretta di questi due fattori: zero prevenzione e truffe compiute ai danni dei cittadini. Non è un caso che crollino come pere cotte edifici scolastici, ospedali, palazzine popolari. Se potessimo fare un carotaggio del cemento armato usato in queste costruzioni, ci potete scommettere, troveremmo che la qualità è pessima perché chi ha costruito ha pensato solo ad abbattere i costi, magari dopo aver vinto una gara d'appalto con un forte ribasso. E' l'altra faccia delle morti sul lavoro, della strage di operai che si compie sui luoghi di lavoro per contenere i costi di produzione. La sicurezza, quella vera, costa e richiede uno Stato che operi nell'interesse della collettività. Richiede norme e controlli severi. Ma dove sono in questo nostro sventurato paese? L'impresa edile che costruisce è la stessa che porta al Genio Civile un campione del calcestruzzo utilizzato, che dichiara la quantità e qualità del ferro adoperato, una sorta di autocertificazione che nessuno mai controllerà. In queste condizioni ci manca solo qualcuno che invochi il Fato o che faccia le previsioni sulle prossime scosse come il nostro presidente del Consiglio, esperto sismologo che ha naturalmente utilizzato un sondaggio della sua società per saperne di più. O come il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, che di fronte alla morte di un giovane per una frana sull'autostrada, nel mese di marzo, ha dichiarato alla stampa locale: «Dio lo vuole«. Invece di dire: io sono responsabile, insieme alla classe politica di ieri e di oggi, dell'assenza di manutenzione sul territorio, dello sperpero di risorse pubbliche, dello scandalo di un territorio che, come il resto della penisola, è diventato uno sfascio pendulo su un mare inquinato.
Di fronte a questa tragedia lo spazio per il riformismo, il tatticismo, il populismo è finito: solo una rivoluzione sociale e politica ci potrà salvare.

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