giovedì 16 aprile 2009

Speciale inchiesta operaia: Domina l'insicurezza ma non c'è la "guerra", effetti di una crisi

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Geografia delle paure
I questionari dell'inchiesta sono stati materialmente distribuiti negli ultimi mesi del 2008, quando la crisi era già nota, messa a tema dai media, ma non aveva ancora dispiegato tutti i suoi nefasti effetti occupazionali. Nonostante ciò i nostri intervistati sono esattamente spaccati a metà: il 50% non ritiene sicuro il proprio posto di lavoro, l'altro 50% sì. Se consideriamo che la nostra inchiesta è arrivata prevalentemente in fabbriche o in luoghi di servizio medio grandi, sindacalizzati e di settori produttivi non ciclici, il 50% di chi si sente insicuro è una percentuale decisamente alta. Questa percentuale è più alta nella stessa misura (di circa l'8%) per precari, donne e stranieri, ma è addirittura terribilmente più alta (di più del 15%) tra i giovani sotto i 30 anni, che abbiano o no un contratto precario. L'altro elemento particolarmente significativo è che, se escludiamo dal conteggio i lavoratori del comparto pubblico (che rappresentano circa l'8% del campione), la percentuale di coloro che hanno paura di perdere il posto di lavoro cresce solo di pochissimo. Questo perché, tra i lavoratori intervistati (esattamente come avviene nella realtà) il settore pubblico concentra in misura maggiore di quello privato i contratti precari e per di più i dipendenti pubblici non godono di nessun ammortizzatore sociale. C'è qui una prima prova della segmentazione di cui parlavamo. Riguarda i soggetti deboli del mercato del lavoro (donne, giovani, stranieri), ovunque si trovino. Ma il nostro campione spaccato a metà tra chi ha paura e chi è sicuro è una classica "media del pollo", soprattutto dal punto di vista territoriale. Infatti oltre ai soggetti più deboli ci sono - specialmente in Italia - territori più sensibili perché vi sono localizzate imprese insufficientemente competitive, o addirittura non vi sono localizzate imprese. La prima frattura territoriale, sebbene se ne parli incredibilmente poco (proprio come tutti i fenomeni sociali importanti che avvengono sottotraccia prima di esplodere), è quella storica fra Nord e Sud. I lavoratori della Stm di Catania pur essendo tutti maschi, molto qualificati (inquadrati almeno al 5° livello), dotati di una certa anzianità aziendale in una delle più importanti multinazionali operanti nel campo delle nuove tecnologie, hanno paura di perdere il posto per percentuali che sfiorano il 70%; risultati simili si hanno al petrolchimico di Sassari e, addirittura peggiori, in un call center di Vibo Valentia, città dove agli alti tassi di disoccupazione si aggiunge l'instabilità tipica delle attività lavorativa dei servizi a bassa produttività. È evidentemente la consapevolezza di un contesto territoriale dove la disoccupazione di lunga durata è la condizione dominante del mercato del lavoro a instillare così tanta paura. Del resto il fattore territoriale è intersecato con la segmentazione tra soggetti deboli e forti del mercato del lavoro. In aree economiche e industriali forti del paese come Padova e Milano, ma dove la composizione operaia fa registrare un'alta incidenza di stranieri e donne (a Milano impiegate come centraliniste) vi è una quota di lavoratori che non ritiene sicuro il proprio posto di lavoro intermedia tra quella del Mezzogiorno e quella di Verona dove è l'86% ad aver risposto che non teme di perdere il lavoro. Nell'estrema differenziazione questi dati registrano comunque un notevole deterioramento della prospettiva, che entra prima nella vita dei lavoratori per poi modificarne la stessa scala di priorità all'interno del luogo di lavoro. In tutti i posti di lavoro, con percentuali schiaccianti lì dove più alta era la paura di perdere il posto, la prima urgenza viene considerata conservare il proprio posto, prima dello stesso salario e molto più delle condizioni di salute sul luogo di lavoro. Uniche eccezioni, nella stessa logica esposta sopra, sono le risposte ottenute dai lavoratori di Parma, Trieste e Verona, che operai maschi di aziende in buona salute, indicano il salario come prima priorità. La particolarità di questa paura è che non viene percepita in prima istanza come una paura personale. La maggioranza dei lavoratori in quasi tutti i luoghi di lavoro (probabilmente anche per effetto della selezione involontaria del nostro campione verso i lavoratori meno fragili) si percepisce come più sicura del proprio compagno di lavoro. L'insicurezza che si vede arrivare riguarda quindi tutti, intere fabbriche, luoghi produttivi e distretti industriali che rischiano la chiusura permanente.

L'uscita da destra
È ovvio che in queste condizioni ogni sviluppo nella situazione sociale è possibile. In particolar modo l'inchiesta si occupava di verificare quanti lavoratori si fossero lasciati attrarre dalle sirene leghiste della "guerra tra poveri". Diciamo subito che sicuramente non sono la maggioranza. Nei luoghi dove abbiamo campioni veramente larghi e rappresentativi (Catania e il distretto di Civita Castellana) si possono riscontrare risposte che lasciano presagire la colpevolizzazione dell'altro al proprio fianco. Specificatamente nelle domande venivano indicati due tipi di lavoratori da licenziare "prima", gli extra-comunitari e i "menefreghisti", ma le due risposte insieme non oltrepassano mai una soglia - comunque significativa - del 20%. È diffusa alla stessa maniera la risposta di chi vorrebbe tutelare i lavoratori più anziani. Non è evidentemente un segnale di "guerra tra poveri", ma è una proposta che distingue tra lavoratori e colpisce che queste risposte siano più presenti proprio nei settori o fasce di lavoratori più deboli piuttosto che nelle fabbriche più sindacalizzate e al riparo dalla crisi.
Il questionario però, tentava anche di misurare veri e propri atteggiamenti discriminatori nei confronti dei lavoratori stranieri. Anche qui la prospettiva di una xenofobia diffusa ne esce quantomeno ridimensionato. Chi pensa che i lavoratori stranieri rubino il posto agli italiani è soltanto il 9%. Quello che colpisce di più però è che i picchi di questo 9% si ritrovino in posti di lavoro, e talvolta in luoghi territoriali dove la presenza straniera è bassissima o nulla. Questo dato è coerente con i risultati di un'altra risposta che, pur contenendo elementi di verità, si avvicina maggiormente alla colpevolizzazione dello straniero. Il 16%, infatti, risponde che gli stranieri accettano salari che abbassano le condizioni di tutti, ma le percentuali più alte in questa risposta vengono da luoghi di lavoro dove la presenza di lavoratori stranieri è addirittura nulla, e dove non si crea una competizione tra forza lavoro straniera e italiana come può succedere in alcuni settori. Questi elementi ci suggeriscono che la diffidenza sul posto di lavoro non è un atteggiamento naturale che nascerebbe dalla "concorrenza sleale" dei lavoratori stranieri, ma è molto di più una forma mentis che matura sul territorio grazie alle campagne xenofobe e al clima razzista montante nel nostro paese. Questo clima inquina la dinamica sociale in maniera pericolosissima perché una volta identificato il nemico interno nel lavoratore non italiano, che è anche quello meno protetto, non c'è più nessun limite nello scaricare la responsabilità sulle posizioni più deboli della classe operaia invece che sui padroni e sui governanti. Questo atteggiamento minoritario purtroppo esiste già, formato come posizione coerente tra alcuni lavoratori.
L'inchiesta chiedeva ai lavoratori una distinzione tra chi vuole lottare insieme ai precari e chi li considera una zavorra. I primi sono evidentemente una maggioranza schiacciante. Il punto però è che, tra i pochi che considerano i precari una zavorra - come è possibile leggere nel grafico riportato in questa stessa pagina -, anche le posizioni discriminatorie nei confronti degli stranieri sono prevalenti.
Tra l'altro l'inchiesta in una multinazionale dell'elettronica di Trieste ci ha fatto capire che la "guerra tra poveri" non ha una sola direzione e si può trasformare in una guerra di tutti contro tutti. In un contesto aziendale dove ci sono molti precari con un'altissima anzianità aziendale, la frustrazione per la propria condizione ha spinto la maggioranza di loro su posizioni conservatrici e non più conflittuali.

L'uscita da sinistra
Fin qui abbiamo esposto i rischi di una crisi che agisce su un mondo del lavoro già segmentato. Altrettante però sono le opportunità. Innanzitutto perché, se si eccettuano i casi di lavoro meno garantito (come le lavoratrici del call center di Vibo Valentia), le posizioni di sfiducia assoluta verso i sindacati perché troppo moderati o troppo estremisti, sono residuali, e quindi c'è ancora una propensione all'associazione e al conflitto. Questa ipotesi è confermata dal fatto che dappertutto, al Nord come al Sud, in aziende più e meno coinvolte nella crisi, permane tra i lavoratori l'opzione della lotta unitaria come scelta preferenziale per difendere le garanzie occupazionali. Una "retorica positiva" che nelle fabbriche più sindacalizzate sfocia anche nella proposta "politica" di ridurre l'orario a parità di salario (27% in media ma più del 30% nelle fabbriche metalmeccaniche). Anche se pesa la debolezza dei risultati raggiunti in questi anni e - soprattutto nei siti produttivi meridionali - la detassazione dei salari viene indicata dalla maggioranza relativa dei lavoratori (il 40%) come la via migliore per la difesa dei salari. Il 27% (con punte molto alte nelle fabbriche metalmeccaniche), però, chiede la reintroduzione della scala mobile e, pochi di meno (il 22%), aumenti ottenuti tramite i contratti nazionali di categoria. Fin qui abbiamo riscontrato che le punte più "politiche" si riscontrano nelle fabbriche metalmeccaniche del nord, ma c'è un altro elemento di assoluto interesse per la proposta politica nella nostra inchiesta. Il salario sociale come proposta universalistica di ammortizzatore sociale raccoglie la maggioranza relativa (il 34%) delle preferenze degli intervistati su come difendere il reddito dei lavoratori sospesi dal lavoro e/o licenziati. Questa risposta si afferma non solo nei territori meridionali devastati dalla disoccupazione, ma anche nei posti di lavoro pubblici e in alcune fabbriche del nord industriale (Lodi e Bergamo), dimostrando il suo potenziale unificante. Un'opportunità da cogliere.

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