mercoledì 15 aprile 2009

Speciale inchiesta operaia!

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Duemila questionari somministrati a operai, e impiegati di aziende private e pubbliche; ventuno le domande poste. L'inchiesta sul lavoro e la crisi voluta da Rifondazione comunista rende un quadro abbastanza fedele dello stato d'animo in cui si trovano milioni di lavoratori in Italia costretti a fronteggiare le pesanti difficoltà in cui versa l'industria italiana e mondiale. I padroni fanno pagare ai lavoratori le scellerate scelte finanziarie di un sistema economico giunto ormai al limite. Maestranze di intere fabbriche vivono l'ansia della cassa integrazione e della mobilità in un tessuto produttivo reso incapace di riassorbire la forza lavoro disoccupata. Rischi di guerre fra poveri e sacrifici nelle famiglie. Ancora una volta pagano, come al solito, i più deboli

Dall'inchiesta al partito sociale
per una politica efficace


http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454435
http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454445

Paolo Ferrero
Segretario nazionale Prc-Se
Al venir meno della forza sociale e politica del movimento dei lavoratori ha corrisposto in questi ultimi decenni la quasi completa scomparsa di studi e ricerche capaci di descrivere sia la concreta realtà dello sfruttamento sia la persistente contraddizione tra capitale e lavoro e quindi le persistenti tendenze, magari nascoste o sviate, al conflitto. Non che siano mancate, in questi anni, inchieste e analisi sul mondo del lavoro, o che sia venuta meno qualunque attenzione agli strati più poveri della società (pensiamo, per quanto riguarda questi ultimi, soprattutto alle pregevoli indagini della Caritas). Ma in quasi tutti i casi il committente dell'indagine non è più un movimento sindacale e politico interessato a fare dell'inchiesta uno strumento di crescita del conflitto. Sono piuttosto istituzioni, università, associazioni caritatevoli; enti per i quali sia la vecchia classe operaia che i nuovi lavoratori sono solo oggetto : di politiche pubbliche, di redditizi progetti di ricerca, di interventi di solidarietà. Da protagonista dell' azione sociale la classe operaia è divenuta parte della più tradizionale questione sociale , intesa come questione accessoria e secondaria rispetto a quella della crescita capitalistica. Al massimo, al lavoro viene assegnato il ruolo di "risorsa umana", da considerarsi al pari di altre risorse e al pari di altri "stakeholder": consumatori, imprese di filiera, cittadini e istituzioni territoriali. Solo occasionalmente, e solo a seguito di gravi incidenti mortali, la pesante realtà materiale del lavoro torna alla luce: ma non come problema civile e politico, bensì come uno dei tanti orrori da servire nel mercato televisivo, condito da abbondanti dosi di finta indignazione e di insopportabile patetismo.
Il risultato di tutto ciò è che ormai il mondo del lavoro e delle classi subalterne è quasi del tutto sconosciuto, anche a chi, come noi, vorrebbe trovare proprio in questo mondo il principale referente della propria azione politica. Una situazione, questa, che dipende anche da ragioni interne al nostro modo di fare politica: da una certa abitudine, favorita dalla necessità di tener testa alla macchina ideologica neoliberista, a costruirsi l'immagine consolatoria di una classe operaia sempre uguale a sè stessa; ma soprattutto dal grave allontanamento dalle classi popolari a causa di politiche autoreferenziali e di derive istituzionalistiche.
Da questo discende la decisione di far sì che l'inchiesta divenga una delle modalità normali del rapporto del partito con una società in continua trasformazione, uno dei più importanti mezzi per la ricostruzione del radicamento sociale del partito: nella convinzione che le cose che non conosciamo sono maggiori di quelle che crediamo di conoscere. Una decisione che diviene ancor più importante oggi, quando la crisi accelera e modifica tutte le dinamiche sociali e ci impone di aggiornarci continuamente sulle evoluzioni delle condizioni di vita e delle aspettative di quella che chiamiamo la "nostra" gente. Se, come è giusto, poniamo la ripresa del conflitto come condizione essenziale di una politica di contrasto alla gestione capitalistica della crisi, la comprensione dettagliata del modo in cui i conflitti concretamente si attuano o possono attuarsi è condizione essenziale di una credibile politica dei comunisti.
Da tutto questo è nata l'idea di questa prima inchiesta nazionale sull'atteggiamento dei lavoratori di fronte alla crisi: un tentativo di percepire "in tempo reale" le tendenze dei lavoratori per ricavarne indicazioni sul nostro intervento.
Va detto subito che la prima indicazione riguarda proprio la persistente inadeguatezza del partito rispetto al compito dell'inchiesta, inadeguatezza mostrata dall'ancora insufficiente diffusione e raccolta dei questionari. Si tratta di una carenza comprensibile in un partito che è impegnato, su molteplici fronti, in una dura battaglia politica e che naturalmente fatica a dotarsi di strumenti nuovi: come si suol dire, dobbiamo riparare il motore mentre l'auto è in corsa, e non è affatto semplice. Ma bisogna farlo, e accanto a un "riaggiustamento" dei modi e dei tempi dell'inchiesta, va condotto un serio confronto politico nelle strutture del partito, mirato alla diffusione e alla piena utilizzazione di questo strumento.
Tale confronto può essere facilitato dal fatto che i primi e pur parziali risultati della nostra inchiesta sono già sufficienti ad accendere l'interesse per ulteriori approfondimenti.
Dalle risposte raccolte emergono infatti dei sintomi assai interessanti che, pur se relativi a una parte limitata dei lavoratori (quella più "classica", maggiormente stabile, concentrata in unità produtive medio-grandi, a maggioranza adulta e di sesso maschile), ci dicono cose non scontate che meritano di essere oggetto di verifica e di particolare riflessione politica.
Il dato forse più significativo è che l'ideologia della "guerra tra i poveri" non ha conquistato la parte più combattiva e organizzata della classe: i lavoratori che pensano di rispondere alla crisi scaricandone gli effetti su precari e immigrati, dall'inchiesta risultano essere molti di meno di quelli che puntano su una forte azione comune di difesa. Questo dato è sostanzialmente confermato dal clima registrato in assemblea da vari sindacalisti. Potremo quindi dire che per quanto riguarda il tessuto delle aziende sindacalizzate, ad oggi, non si verifica uno scivolamento significativo verso posizioni da "guerra tra i poveri" che sarebbe quindi un elemento più agito dall'esterno (la Lega Nord) che un dato interno al mondo del lavoro. Procedendo con molta cautela, si tratta quindi di monitorare il fenomeno con attenzione, anche perché su questo punto non abbiamo dati precedenti che permettano di comprendere l'evoluzione delle posizioni corporative e razziste, e sarà necessario controllare costantemente il modificarsi degli atteggiamenti.
Molto interessanti, inoltre, sono le considerazioni sugli strumenti e sugli obiettivi dell'azione collettiva. Quanto agli strumenti emerge una chiara opzione verso un sindacato "forte e unitario", che però non si traduce in un affidamento passivo alle strutture esistenti: di queste infatti si contesta molto più l'arrendevolezza che l'"eccesso" di conflittualità, e parti significative di lavoratori indicano l'esigenza di un rinnovamento, attraverso la creazione di nuovi sindacati o attraverso il rafforzamento di strutture di base. Più tradizionale, e sotto molti aspetti più ovvia, è invece l'individuazione degli obiettivi: la difesa del posto di lavoro viene infatti indicata come obiettivo più importante rispetto all'aumento del salario e al miglioramento delle condizioni di lavoro; le ipotesi di salario sociale sono preferite al rafforzamento della cassa integrazione soprattutto nelle realtà a minore industrializzazione, come quella meridionale. Meno ovvie sono forse le considerazioni sul modo migliore per difendere il salario: pochi sono coloro che puntano sulla contrattazione aziendale (smentendo così l'idea dell'adesione dei lavoratori allo smantellamento del contratto nazionale), maggiore è il numero di coloro che fanno affidamento sulla contrattazione nazionale, ma prevalente è il numero di coloro che indicano come soluzione la diminuzione delle tasse sui redditi da lavoro dipendente. Questo atteggiamento è probabilmente il frutto di più elementi, a partire dalla consapevolezza della propria posizione di scarsa forza nel rapporto contrattuale con la controparte e da una accentuata delega al terreno della politica per la soluzione dei problemi che un tempo venivano affrontati e risolti direttamente sul terreno strettamente sindacale.
Si tratta solo di sintomi, conviene ripeterlo, ma comunque assai interessanti, perché indicano che, probabilmente, divisioni e sfiducia non sono ancora penetrate a fondo in alcuni importanti comparti del lavoro, che una lotta collettiva e unificante è ancora possibile, e che i suoi strumenti e i suoi obiettivi sono in parte univoci, ma in parte sono soggetti a interpretazioni molteplici e a soluzioni differenziate. Ed è in particolare qui che deve situarsi l'intervento del partito, nel selezionare gli obiettivi che abbiano maggiore capacità unificante, nel proporli ai lavoratori sia direttamente sia attraverso l'azione dei nostri militanti sindacali, nell'impegnarsi per modalità democratiche di definizione delle piattaforme.
Certo, nel nostro campione sono sottorappresentate parti importanti del mondo del lavoro (donne, precari, atipici, immigrati, lavoratori delle piccole imprese e lavoratori formalmente autonomi), alcune delle quali sono spesso ritenute più permeabili alle tendenze individualistiche e in senso lato "leghiste". Ma come raggiungere questi lavoratori che, per definizione, sono dispersi nelle più frantumate unità produttive o negli intricati e mobili territori urbani? Saranno necessari, certamente, nuovi accorgimenti analitici, scelte di particolari campioni, ecc. Ma non basterà affinare le tecniche di ricerca: infatti le parti maggiormente disperse e frammentate del lavoro possono essere intercettate solo se e in quanto crescono la presenza e l'influenza politica del partito. Ed anche per questo bisogna insistere sul partito sociale : tra i suoi molteplici effetti, quest'ultimo ha infatti anche quello di costruire, attraverso esperienze mutualistiche che si realizzano più nei territori che nelle imprese, i luoghi in cui tutto il lavoro, anche quello atipico, precario e meno organizzato, può convergere, riconoscersi ed essere riconosciuto. I luoghi in cui, dato il tipo delle questioni affrontate (generalmente esterne al terreno produttivo, e relative piuttosto alla riproduzione: consumo, assistenza, gestione della vita quotidiana) le donne assumono ruoli ancor più incisivi e dunque meglio si prestano all'interlocuzione.
Il partito sociale è già di per sè stesso un iniziale ed elementare momento di inchiesta, perché ci mette in rapporto con persone che da tempo non incontravamo più e con dimensioni che raramente abbiamo frequentato; perché ci permette di conoscere con maggior precisione i bisogni e di far parlare chi, in genere, non ha voce nell'attuale dibattito "pubblico". Allargando ulteriormente le sue reti il partito sociale può, in aggiunta, creare i bacini da cui attingere nuove conoscenze sulla vita, sul lavoro, sulla propensione alla mobilitazione di tutti coloro che costituiscono il fluttuante universo di quel lavoro "mobile" che oggi è particolarmente esposto all'insicurezza e quindi alla propaganda sicuritaria e che domani, se sapremo ben intrecciare inchiesta e azione politica, diverrà la base di un nuovo, diffuso movimento anticapitalista.

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