giovedì 30 aprile 2009
mercoledì 29 aprile 2009
Il nostro 25 Aprile senza abiure o rimozioni
di Alberto Burgio
su Il Manifesto del 28/04/2009
Che quest’anno Berlusconi, per la prima volta dalla sua «discesa in campo» nel ’94, abbia preso parte alle celebrazioni del 25 aprile non è una vittoria della sinistra. Non è un punto a favore dell’antifascismo. È un successo della destra e di Berlusconi, che ha impresso il proprio segno anche sulla festa della Liberazione. Ne è rimasto lontano fin quando parteciparvi lo avrebbe costretto a rendere onore alla lotta partigiana. Vi ha preso parte nel momento in cui ha potuto ridisegnarla a propria immagine e somiglianza, spogliandola dall’antifascismo ed emendandola da ogni riferimento ai comunisti. Il risultato è rilevante. In questa Italia priva di oggettività, dove è possibile dire tutto senza tema di smentite, dove ogni giorno televisioni e giornali reinventano la storia ad uso dei potenti, il 25 aprile non è più il ricordo della Liberazione dal nazifascismo, in primo luogo ad opera dei partigiani comunisti. È la festa della de-comunistizzazione della nostra storia.
Le parole dette da Berlusconi ad Onna lo dimostrano nel modo più netto. Il problema non è dire o non dire «viva la Resistenza» e neppure tributare formali omaggi ai partigiani mentre ci si inchina alla memoria dei repubblichini «in buona fede». Il problema è espungere i comunisti, spingerli ai margini della storia italiana, confinarli nel ghetto dei totalitarismi. Questo è l’intento del «premier» (e il suo punto di contatto con il segretario del Pd). Con ciò Berlusconi non chiude affatto i conti col passato, come scrive Augusto Minzolini sulla Stampa nel suo esercizio di piaggeria meglio riuscito. Al contrario, legittima il passato, «superando il carattere antifascista» della Liberazione.
Come siamo arrivati a tanto? Qualche tempo fa (sul manifesto del 31 marzo) Ida Dominijanni, d’accordo con Perry Anderson, ha risposto che la colpa ricade in primo luogo sul Pci, sull’«ipoteca idealista» dell’eredità gramsciana, su Togliatti che non impose la de-fascistizzazione del Paese, su Berlinguer che non capì l’offensiva populista dell’industria culturale berlusconiana e ripiegò sul terreno morale. È una tesi paradossale. Fermi restando i gravi limiti dell’azione del Pci (un tema che deve essere affrontato con serietà e onestà intellettuale), sembra più verosimile la tesi opposta: Berlusconi dilaga perché i comunisti sono ridotti a poca cosa. Piuttosto che con Gramsci e Togliatti, non converrebbe prendersela con chi ha gettato alle ortiche quell’eredità mentre già infuriava la guerra neoliberista contro il lavoro? Con chi ha smantellato il Pci contribuendo in misura determinante a rendere minoritaria la cultura di classe nel Paese? Non converrebbe interrogarsi sulle cause oggettive e soggettive di questo impressionante episodio di trasformismo, per cui milioni di comunisti italiani si sono sciolti come neve al sole nel giro di un lustro o poco più? Quel che attende di essere indagato è il «caso italiano» degli anni Novanta: la conversione neoliberista di gran parte del gruppo dirigente post-berlingueriano e il suo appassionato impegno nella «modernizzazione» del Paese a suon di privatizzazioni e precarietà.
Berlusconi occupa lo spazio che gli si lascia. Proprio Gramsci, riflettendo sulle rivoluzioni passive, sostiene che spesso la forza del vincente è la debolezza della controparte. Un paio di giorni fa questa osservazione tornava in un articolo del Guardian. «Il Signor Berlusconi deve il successo alla sua audacia e in gran parte alla profonda debolezza dei suoi avversari». Da qui occorre partire. Per questo suscita perplessità anche l’intervento di Marco Revelli sul manifesto del 25 aprile. Certo, l’indignazione per il riemergere dell’Italia fascista è sacrosanta, ma non basta opporle l’Italia di Ruffini e Bobbio. È una risposta omissiva e debole, oltre che storicamente non consistente. Una risposta che lascia scoperto proprio il vasto territorio (quello del conflitto di classe e della lotta operaia contro il capitalismo) sul quale oggi la destra si espande e si consolida. Può spiacere – spiace a molti, anche a sinistra – ma la Resistenza è stata soprattutto comunista, l’antifascismo italiano è stato soprattutto comunista, la Costituente è stata segnata in profondità dall’impegno del Pci e la Costituzione repubblicana, che Berlusconi dice «sovietica», sarebbe impensabile senza il contributo dei comunisti, senza la loro esperienza e cultura politica.
Per paradosso, anche a sinistra si rappresenta un 25 aprile de-comunistizzato, somigliante a quello per cui lavora Berlusconi. Non è questa la strada per contrastare la Vandea che rischia di sommergerci. Reagire implica il coraggio delle proprie idee e anche l’orgoglio della propria storia. Nessuna celebrazione retorica. Nessuna apologia. Al contrario, una riflessione critica, problematica, disposta a denunciare limiti ed errori. Ma rimozioni e abiure no, quelle servono soltanto – al di là delle intenzioni – a dare man forte al revisionismo della destra.
http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=28844
su Il Manifesto del 28/04/2009
Che quest’anno Berlusconi, per la prima volta dalla sua «discesa in campo» nel ’94, abbia preso parte alle celebrazioni del 25 aprile non è una vittoria della sinistra. Non è un punto a favore dell’antifascismo. È un successo della destra e di Berlusconi, che ha impresso il proprio segno anche sulla festa della Liberazione. Ne è rimasto lontano fin quando parteciparvi lo avrebbe costretto a rendere onore alla lotta partigiana. Vi ha preso parte nel momento in cui ha potuto ridisegnarla a propria immagine e somiglianza, spogliandola dall’antifascismo ed emendandola da ogni riferimento ai comunisti. Il risultato è rilevante. In questa Italia priva di oggettività, dove è possibile dire tutto senza tema di smentite, dove ogni giorno televisioni e giornali reinventano la storia ad uso dei potenti, il 25 aprile non è più il ricordo della Liberazione dal nazifascismo, in primo luogo ad opera dei partigiani comunisti. È la festa della de-comunistizzazione della nostra storia.
Le parole dette da Berlusconi ad Onna lo dimostrano nel modo più netto. Il problema non è dire o non dire «viva la Resistenza» e neppure tributare formali omaggi ai partigiani mentre ci si inchina alla memoria dei repubblichini «in buona fede». Il problema è espungere i comunisti, spingerli ai margini della storia italiana, confinarli nel ghetto dei totalitarismi. Questo è l’intento del «premier» (e il suo punto di contatto con il segretario del Pd). Con ciò Berlusconi non chiude affatto i conti col passato, come scrive Augusto Minzolini sulla Stampa nel suo esercizio di piaggeria meglio riuscito. Al contrario, legittima il passato, «superando il carattere antifascista» della Liberazione.
Come siamo arrivati a tanto? Qualche tempo fa (sul manifesto del 31 marzo) Ida Dominijanni, d’accordo con Perry Anderson, ha risposto che la colpa ricade in primo luogo sul Pci, sull’«ipoteca idealista» dell’eredità gramsciana, su Togliatti che non impose la de-fascistizzazione del Paese, su Berlinguer che non capì l’offensiva populista dell’industria culturale berlusconiana e ripiegò sul terreno morale. È una tesi paradossale. Fermi restando i gravi limiti dell’azione del Pci (un tema che deve essere affrontato con serietà e onestà intellettuale), sembra più verosimile la tesi opposta: Berlusconi dilaga perché i comunisti sono ridotti a poca cosa. Piuttosto che con Gramsci e Togliatti, non converrebbe prendersela con chi ha gettato alle ortiche quell’eredità mentre già infuriava la guerra neoliberista contro il lavoro? Con chi ha smantellato il Pci contribuendo in misura determinante a rendere minoritaria la cultura di classe nel Paese? Non converrebbe interrogarsi sulle cause oggettive e soggettive di questo impressionante episodio di trasformismo, per cui milioni di comunisti italiani si sono sciolti come neve al sole nel giro di un lustro o poco più? Quel che attende di essere indagato è il «caso italiano» degli anni Novanta: la conversione neoliberista di gran parte del gruppo dirigente post-berlingueriano e il suo appassionato impegno nella «modernizzazione» del Paese a suon di privatizzazioni e precarietà.
Berlusconi occupa lo spazio che gli si lascia. Proprio Gramsci, riflettendo sulle rivoluzioni passive, sostiene che spesso la forza del vincente è la debolezza della controparte. Un paio di giorni fa questa osservazione tornava in un articolo del Guardian. «Il Signor Berlusconi deve il successo alla sua audacia e in gran parte alla profonda debolezza dei suoi avversari». Da qui occorre partire. Per questo suscita perplessità anche l’intervento di Marco Revelli sul manifesto del 25 aprile. Certo, l’indignazione per il riemergere dell’Italia fascista è sacrosanta, ma non basta opporle l’Italia di Ruffini e Bobbio. È una risposta omissiva e debole, oltre che storicamente non consistente. Una risposta che lascia scoperto proprio il vasto territorio (quello del conflitto di classe e della lotta operaia contro il capitalismo) sul quale oggi la destra si espande e si consolida. Può spiacere – spiace a molti, anche a sinistra – ma la Resistenza è stata soprattutto comunista, l’antifascismo italiano è stato soprattutto comunista, la Costituente è stata segnata in profondità dall’impegno del Pci e la Costituzione repubblicana, che Berlusconi dice «sovietica», sarebbe impensabile senza il contributo dei comunisti, senza la loro esperienza e cultura politica.
Per paradosso, anche a sinistra si rappresenta un 25 aprile de-comunistizzato, somigliante a quello per cui lavora Berlusconi. Non è questa la strada per contrastare la Vandea che rischia di sommergerci. Reagire implica il coraggio delle proprie idee e anche l’orgoglio della propria storia. Nessuna celebrazione retorica. Nessuna apologia. Al contrario, una riflessione critica, problematica, disposta a denunciare limiti ed errori. Ma rimozioni e abiure no, quelle servono soltanto – al di là delle intenzioni – a dare man forte al revisionismo della destra.
http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=28844
martedì 28 aprile 2009
Le candidature al Parlamento Europeo della Lista Comunista Anticapitalista
http://home.rifondazione.it/xisttest/content/view/5691/430/
CIRCOSCRIZIONE NORD-OVEST 19
1 VITTORIO AGNOLETTO - Europarlamentare uscente
2 GIOVANNI PAGLIARINI - Lombardia (MI) - Responsabile Lavoro PdCI
3 HAIDI GAGGIO GIULIANI - Liguria (GE) - Insegnante in pensione
4 MARGHERITA HACK - Astrofisica
5 CIRO ARGENTINO - Piemonte (TO) - Operaio ThyssenKrupp
6 ALESSANDRO BORTOT - Valle d'Aosta - Figura storica sinistra valdostana, ex- cons regionale, cooperativa “lo pan ner”, Espace Populaire, commercio equo solidale
7 PATRIZIA COLOSIO - Lombardia (BS) - tra le fondatrici dell'ass. Pianeta Viola , lunga esperienza nella formaz. su tematiche inerenti al genere e all'orientamento sessuale
8 MARINA FIORE - Piemonte (NO) - Protagonista movimento contro produzione caccia f35
9 OMBRETTA FORTUNATI - Lombardia (MI) - Consigliera provinciale
10 RITA LAVAGGI - Liguria (GE) - Insegnante, Sinistra europea, comitati ambientalisti
11 ALEANDRO LONGHI - Liguria (GE) - Ex parl DS e poi PdCI, pensionato FF.SS
12 ENRICO MORICONI - Piemonte - Consigliere regionale Uniti a Sinistra
13 ANTONELLO MULAS - Piemonte (TO) - Delegato Fiom Mirafiori
14 PAOLA NICOLI - Lombardia (MI) - Ricercatrice Cti
15 ESAHAQ SUAD OMAR SHEIK - Piemonte (TO) - Comunità somala, intermediatrice culturale
16 DIJANA PAVLOVIC - Lombardia - Attrice Rom
17 ROSANGELA PESENTI - Insegnante di Storia e Letterature nella scuola Superiore, Analista Transazionale e formatrice, dirigente nazionale dell'Udi fino al 2003, autrice di saggi e narrativa
18 DANIELA POLENGHI - Lombardia (CR) - Assessore comunale
19 ERMANNO TESTA - CIDI nazionale
CIRCOSCRIZIONE NORD-EST 13
1 LIDIA MENAPACE - Pacifista
2 OLIVIERO DILIBERTO - Segretario nazionale PdCI
3 ALBERTO BURGIO - Docente Storia della filosofia contemporanea presso l'Università di Bologna, autore di numerose pubblicazioni
4 FRANCESCA ANDREOSE - Veneto (PD) - Insegnante
5 ANNAMARIA BURONI - Veneto (VE) - Pres. Ass. Contromobbing (2000 aderenti) con sportello pubblico in collaboraz con la Prov di VE e in collaboraz con i Comuni di VE, RO, TV, VR
6 CINZIA COLAPRICO - Emilia Romagna (FC) - Operaia Zanussi di Forlì, cassintegrata, RSU, componente del direttivo regionale della FIOM
7 PIA COVRE - Friuli Venezia Giulia - Attivista impegnata per i diritti civili, ambientalista e pacifista. Fondatrice del comitato per i diritti civili delle prostitute
8 VALERIO EVANGELISTI - Emilia Romagna - Scrittore
9 EMILIO FRANZINA - Veneto (VI) - Prof Storia Contemporanea Verona,Cons provinciale Vicenza PRC PDCI e movimento No Dal Molin
10 IGOR KOCIJANCIC - Friuli Venezia Giulia (TS) - Consigliere regionale
11 SERGIO MINUTILLO - Friuli Venezia Giulia (TS) - Primario cardiologo Ospedale Trieste
12 SARA SBIZZERA - Veneto (VR) - Traduttrice
13 LOREDANA VISCIGLIA - Emilia Romagna (RE) - Insegnante
CIRCOSCRIZIONE CENTRO 14
1 OLIVIERO DILIBERTO - Segretario nazionale PdCI
2 FABIO AMATO - Responsabile Esteri PRC
3 MARIA ROSARIA MARELLA - Umbria (PG) - Docente Universita' Perugia
4 RANIERO LA VALLE - Sinistra cristiana
5 ANDREA CAVOLA - Lazio - Rappresentante sindacale SDL, cassintegrato Alitalia
6 ROSA (ROSI) RINALDI - Lazio (RM) - Direzione nazionale PRC
7 PAULA BEATRIZ AMADIO - Segretaria provinciale PRC Ascoli Piceno
8 NICOLETTA BRACCI - Toscana - Bracciante agricola
9 ORFEO GORACCI - Umbria (PG) - Sindaco di Gubbio
10 GIUSEPPE MASCIO - Umbria (TR) - Assessore regionale Lavoro
11 MARIO MICHELANGELI - Lazio (FR) - Segretario regionale PdCI, ex assessore regionale
12 BASSAM SALEH - Lazio (RM) - Comunità palestinese
13 VINCENZO SIMONI - Toscana (FI) - Ex segretario Unione Inquilini
14 LUIGI TAMBORRINO - Lazio (RM) - Centro sociale Rialto
CIRCOSCRIZIONE SUD 18
1 VITTORIO AGNOLETTO - Europarlamentare uscente
2 MASSIMO VILLONE - Professore universitario, costituzionalista
3 GIUSTO CATANIA - Europarlamentare uscente
4 LAURA MARCHETTI - Puglia (BA) - Ambientalista, docente Università Foggia
5 CICCIO BRIGATI - Puglia (TA) - Operaio Ilva
6 NICOLA CATALDO - Basilicata (MT) - Avvocato
7 PELLEGRINO DEL REGNO - Campania (AV)
8 SANDRO FUCITO - Campania (NA) - Consigliere comunale al Comune di Napoli
9 LUCIO LIBONATI - Sinistra europea
10 DOMENICO LOFFREDO - Campania (NA) - Operaio del circolo FIAT di Pomigliano, attivo nelle proteste delle ultime settimane
11 ANTONIO MACERA - Abruzzo (TE) - Segretario regionale PdCI
12 CARMELA MAGLIONE - Campania (NA) - Insegnante
13 GIUSEPPE MERICO - Puglia (LE) - Segretario regionale PdCI
14 GIOVANNI PISTOIA - Calabria (CS) - Autore di pubblicazioni, Presid Fondazione C. De Luca (onlus che si occupa di Letteratura per l’infanzia )
15 AMEDEO ROSSI (detto LOREDANA) - Campania (NA) - Transessuale, Cantieri Sociali, operatrice Cooperativa Dedalus di Napoli, attiva nelle battaglie contro le logiche securitarie
16 MICHELANGELO TRIPODI - Calabria (RC) - Assessore regionale
17 BERNARDO TUCCILLO - Campania (NA) - Ass. prov. al Lavoro a Napoli
18 DANIELE VALLETTA - Puglia (BR) - Consigliere comunale Brindisi
CIRCOSCRIZIONE ISOLE 8
1 MARGHERITA HACK - Astrofisica
2 GIUSTO CATANIA - Europarlamentare uscente
3 ANNA BUNETTO - Scrittrice, pedagogista
4 ALESSANDRO CORONA - Sardegna (NU) - Sindaco di Atzara
5 RENATA GOVERNALI - Sicilia (CT) - Pedagogista, scrittrice
6 PIERPAOLO MONTALTO - Sicilia (CT) - Segretario Federazione PRC Catania
7 LINA RUSSO - Sicilia (SR) - Operatirice sanitaria
8 LAURA STOCHINO - Sardegna (CA) - Ricercatrice, insegnante precaria
CIRCOSCRIZIONE NORD-OVEST 19
1 VITTORIO AGNOLETTO - Europarlamentare uscente
2 GIOVANNI PAGLIARINI - Lombardia (MI) - Responsabile Lavoro PdCI
3 HAIDI GAGGIO GIULIANI - Liguria (GE) - Insegnante in pensione
4 MARGHERITA HACK - Astrofisica
5 CIRO ARGENTINO - Piemonte (TO) - Operaio ThyssenKrupp
6 ALESSANDRO BORTOT - Valle d'Aosta - Figura storica sinistra valdostana, ex- cons regionale, cooperativa “lo pan ner”, Espace Populaire, commercio equo solidale
7 PATRIZIA COLOSIO - Lombardia (BS) - tra le fondatrici dell'ass. Pianeta Viola , lunga esperienza nella formaz. su tematiche inerenti al genere e all'orientamento sessuale
8 MARINA FIORE - Piemonte (NO) - Protagonista movimento contro produzione caccia f35
9 OMBRETTA FORTUNATI - Lombardia (MI) - Consigliera provinciale
10 RITA LAVAGGI - Liguria (GE) - Insegnante, Sinistra europea, comitati ambientalisti
11 ALEANDRO LONGHI - Liguria (GE) - Ex parl DS e poi PdCI, pensionato FF.SS
12 ENRICO MORICONI - Piemonte - Consigliere regionale Uniti a Sinistra
13 ANTONELLO MULAS - Piemonte (TO) - Delegato Fiom Mirafiori
14 PAOLA NICOLI - Lombardia (MI) - Ricercatrice Cti
15 ESAHAQ SUAD OMAR SHEIK - Piemonte (TO) - Comunità somala, intermediatrice culturale
16 DIJANA PAVLOVIC - Lombardia - Attrice Rom
17 ROSANGELA PESENTI - Insegnante di Storia e Letterature nella scuola Superiore, Analista Transazionale e formatrice, dirigente nazionale dell'Udi fino al 2003, autrice di saggi e narrativa
18 DANIELA POLENGHI - Lombardia (CR) - Assessore comunale
19 ERMANNO TESTA - CIDI nazionale
CIRCOSCRIZIONE NORD-EST 13
1 LIDIA MENAPACE - Pacifista
2 OLIVIERO DILIBERTO - Segretario nazionale PdCI
3 ALBERTO BURGIO - Docente Storia della filosofia contemporanea presso l'Università di Bologna, autore di numerose pubblicazioni
4 FRANCESCA ANDREOSE - Veneto (PD) - Insegnante
5 ANNAMARIA BURONI - Veneto (VE) - Pres. Ass. Contromobbing (2000 aderenti) con sportello pubblico in collaboraz con la Prov di VE e in collaboraz con i Comuni di VE, RO, TV, VR
6 CINZIA COLAPRICO - Emilia Romagna (FC) - Operaia Zanussi di Forlì, cassintegrata, RSU, componente del direttivo regionale della FIOM
7 PIA COVRE - Friuli Venezia Giulia - Attivista impegnata per i diritti civili, ambientalista e pacifista. Fondatrice del comitato per i diritti civili delle prostitute
8 VALERIO EVANGELISTI - Emilia Romagna - Scrittore
9 EMILIO FRANZINA - Veneto (VI) - Prof Storia Contemporanea Verona,Cons provinciale Vicenza PRC PDCI e movimento No Dal Molin
10 IGOR KOCIJANCIC - Friuli Venezia Giulia (TS) - Consigliere regionale
11 SERGIO MINUTILLO - Friuli Venezia Giulia (TS) - Primario cardiologo Ospedale Trieste
12 SARA SBIZZERA - Veneto (VR) - Traduttrice
13 LOREDANA VISCIGLIA - Emilia Romagna (RE) - Insegnante
CIRCOSCRIZIONE CENTRO 14
1 OLIVIERO DILIBERTO - Segretario nazionale PdCI
2 FABIO AMATO - Responsabile Esteri PRC
3 MARIA ROSARIA MARELLA - Umbria (PG) - Docente Universita' Perugia
4 RANIERO LA VALLE - Sinistra cristiana
5 ANDREA CAVOLA - Lazio - Rappresentante sindacale SDL, cassintegrato Alitalia
6 ROSA (ROSI) RINALDI - Lazio (RM) - Direzione nazionale PRC
7 PAULA BEATRIZ AMADIO - Segretaria provinciale PRC Ascoli Piceno
8 NICOLETTA BRACCI - Toscana - Bracciante agricola
9 ORFEO GORACCI - Umbria (PG) - Sindaco di Gubbio
10 GIUSEPPE MASCIO - Umbria (TR) - Assessore regionale Lavoro
11 MARIO MICHELANGELI - Lazio (FR) - Segretario regionale PdCI, ex assessore regionale
12 BASSAM SALEH - Lazio (RM) - Comunità palestinese
13 VINCENZO SIMONI - Toscana (FI) - Ex segretario Unione Inquilini
14 LUIGI TAMBORRINO - Lazio (RM) - Centro sociale Rialto
CIRCOSCRIZIONE SUD 18
1 VITTORIO AGNOLETTO - Europarlamentare uscente
2 MASSIMO VILLONE - Professore universitario, costituzionalista
3 GIUSTO CATANIA - Europarlamentare uscente
4 LAURA MARCHETTI - Puglia (BA) - Ambientalista, docente Università Foggia
5 CICCIO BRIGATI - Puglia (TA) - Operaio Ilva
6 NICOLA CATALDO - Basilicata (MT) - Avvocato
7 PELLEGRINO DEL REGNO - Campania (AV)
8 SANDRO FUCITO - Campania (NA) - Consigliere comunale al Comune di Napoli
9 LUCIO LIBONATI - Sinistra europea
10 DOMENICO LOFFREDO - Campania (NA) - Operaio del circolo FIAT di Pomigliano, attivo nelle proteste delle ultime settimane
11 ANTONIO MACERA - Abruzzo (TE) - Segretario regionale PdCI
12 CARMELA MAGLIONE - Campania (NA) - Insegnante
13 GIUSEPPE MERICO - Puglia (LE) - Segretario regionale PdCI
14 GIOVANNI PISTOIA - Calabria (CS) - Autore di pubblicazioni, Presid Fondazione C. De Luca (onlus che si occupa di Letteratura per l’infanzia )
15 AMEDEO ROSSI (detto LOREDANA) - Campania (NA) - Transessuale, Cantieri Sociali, operatrice Cooperativa Dedalus di Napoli, attiva nelle battaglie contro le logiche securitarie
16 MICHELANGELO TRIPODI - Calabria (RC) - Assessore regionale
17 BERNARDO TUCCILLO - Campania (NA) - Ass. prov. al Lavoro a Napoli
18 DANIELE VALLETTA - Puglia (BR) - Consigliere comunale Brindisi
CIRCOSCRIZIONE ISOLE 8
1 MARGHERITA HACK - Astrofisica
2 GIUSTO CATANIA - Europarlamentare uscente
3 ANNA BUNETTO - Scrittrice, pedagogista
4 ALESSANDRO CORONA - Sardegna (NU) - Sindaco di Atzara
5 RENATA GOVERNALI - Sicilia (CT) - Pedagogista, scrittrice
6 PIERPAOLO MONTALTO - Sicilia (CT) - Segretario Federazione PRC Catania
7 LINA RUSSO - Sicilia (SR) - Operatirice sanitaria
8 LAURA STOCHINO - Sardegna (CA) - Ricercatrice, insegnante precaria
lunedì 27 aprile 2009
Il sogno di Berlusconi: un Presidente assoluto per una Repubblica assolutamente Presidenziale
Benché frutto evidente di compromessi, la Costituzione repubblicana riuscì a conseguire due obiettivi nobili e fondamentali: garantire la libertà e creare le condizioni per uno sviluppo democratico del Paese. Non fu poco. Anzi, fu il miglior compromesso allora possibile.
Fu però mancato l’obiettivo di creare una coscienza morale “comune” della nazione, un obiettivo forse prematuro per quei tempi, tanto che il valore prevalente fu per tutti l’antifascismo, ma non per tutti l’antitotalitarismo. Fu il portato della storia, un compromesso utile a scongiurare che la Guerra fredda che divideva verticalmente l'Italia non sfociasse in una guerra civile dagli esiti imprevedibili. Ma l'assunzione di responsabilità e il senso dello Stato che animarono tutti i leader politici di allora restano una grande lezione che sarebbe imperdonabile dimenticare. Oggi, 64 anni dopo il 25 aprile 1945 e a vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino, il nostro compito, il compito di tutti, è quello di costruire finalmente un sentimento nazionale unitario.
Sta in queste parole, pronunciate nel giorno della sua prima apparizione da Premier alle celebrazioni del 25 Aprile, tutto il grande progetto Berlusconiano e il suo sogno di cambiamento istituzionale. Con queste poche righe il B. dice apertamente che la Costituzione che abbiamo in Italia fu un compromesso. Certo il migliore possibile, perché fatto in tempo di guerra. Ma comunque un compromesso. Ora però, sessant'anni dopo che quel pezzo di carta fu scritto, l'emergenza è superata. I comunisti estremisti e illiberali sono stati spazzati via, la situazione istituzionale è stata sistemizzata e in carica c'è un governo che ha saputo costruire una tale egemonia al punto di godere dei consensi dei 3/4 della popolazione. Per Berlusconi è quindi arrivato l'irrevocabile momento di mettere mano alla Costituzione costruita in tempo di guerra e riscriverla secondo i moderni canoni. Il Presidente del Consiglio, negli utlimi mesi, dopo essersi reso conto del campo aperto lasciatogli da una opposizione parlamentare confusionaria e liquefatta, ha seguito una precisa linea. I suoi discorsi sono stati quelli del Monarca Illuminato, di colui che con la sua infinita sapienza e pazienza riesce nell'arco di poco tempo a pacificare il Paese e dargli una nuova prospettiva di modernità.
In questa situazione il Caro Leader Italiano (e non me ne voglia il leader comunista nord-coreano), ha solo un problema veramente serio: il ruolo che ricopre. Vuoi perché troppo di parte, vuoi perché troppo politico, la figura del Premier non è adeguata alla struttura di uomo istituzionale che Berlusconi si sta costruendo. Il vero compimento del progetto di trasformazione da Anomalia (con la maiuscola) a Sovrano della Provvidenza, è diventare il Presidente di tutti gli italiani, il Presidente della Repubblica. Ma il fine non è raccogliere la sterile gloria che giunge dal ruolo oggi ricoperto da Napolitano, assolutamente no. Il vero sogno del Signor B è essere il commander in chief della nazione, il plenipotenziario totalmente riconosciuto dal popolo e dall'opposizione politica, colui che dopo i decenni bui in cui era il grande Partito Comunista a guidare la coscienza e la cultura comune, finalmente libera l'Italia dal giogo di quella parte politica e la proietta automaticamente nella modernità. Berlusconi liberatore, Berlusconi come colui che ha veramente sconfitto il comunismo.
I prossimi 4 anni la Costituzione subirà un attacco mai visto. L'ex Caimano, il Cav supremo e potente però nello stesso tempo guascone e popolare, non appena avrà trasformato l'Italia in una Repubblica Presidenziale e ne avrà preso le assolute e intoccabili redini, finalmente sarà arrivato alla fine del suo percorso, costruito, passo dopo passo, nell'arco di quarant'anni.
Luciano Altomare
Fu però mancato l’obiettivo di creare una coscienza morale “comune” della nazione, un obiettivo forse prematuro per quei tempi, tanto che il valore prevalente fu per tutti l’antifascismo, ma non per tutti l’antitotalitarismo. Fu il portato della storia, un compromesso utile a scongiurare che la Guerra fredda che divideva verticalmente l'Italia non sfociasse in una guerra civile dagli esiti imprevedibili. Ma l'assunzione di responsabilità e il senso dello Stato che animarono tutti i leader politici di allora restano una grande lezione che sarebbe imperdonabile dimenticare. Oggi, 64 anni dopo il 25 aprile 1945 e a vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino, il nostro compito, il compito di tutti, è quello di costruire finalmente un sentimento nazionale unitario.
Sta in queste parole, pronunciate nel giorno della sua prima apparizione da Premier alle celebrazioni del 25 Aprile, tutto il grande progetto Berlusconiano e il suo sogno di cambiamento istituzionale. Con queste poche righe il B. dice apertamente che la Costituzione che abbiamo in Italia fu un compromesso. Certo il migliore possibile, perché fatto in tempo di guerra. Ma comunque un compromesso. Ora però, sessant'anni dopo che quel pezzo di carta fu scritto, l'emergenza è superata. I comunisti estremisti e illiberali sono stati spazzati via, la situazione istituzionale è stata sistemizzata e in carica c'è un governo che ha saputo costruire una tale egemonia al punto di godere dei consensi dei 3/4 della popolazione. Per Berlusconi è quindi arrivato l'irrevocabile momento di mettere mano alla Costituzione costruita in tempo di guerra e riscriverla secondo i moderni canoni. Il Presidente del Consiglio, negli utlimi mesi, dopo essersi reso conto del campo aperto lasciatogli da una opposizione parlamentare confusionaria e liquefatta, ha seguito una precisa linea. I suoi discorsi sono stati quelli del Monarca Illuminato, di colui che con la sua infinita sapienza e pazienza riesce nell'arco di poco tempo a pacificare il Paese e dargli una nuova prospettiva di modernità.
In questa situazione il Caro Leader Italiano (e non me ne voglia il leader comunista nord-coreano), ha solo un problema veramente serio: il ruolo che ricopre. Vuoi perché troppo di parte, vuoi perché troppo politico, la figura del Premier non è adeguata alla struttura di uomo istituzionale che Berlusconi si sta costruendo. Il vero compimento del progetto di trasformazione da Anomalia (con la maiuscola) a Sovrano della Provvidenza, è diventare il Presidente di tutti gli italiani, il Presidente della Repubblica. Ma il fine non è raccogliere la sterile gloria che giunge dal ruolo oggi ricoperto da Napolitano, assolutamente no. Il vero sogno del Signor B è essere il commander in chief della nazione, il plenipotenziario totalmente riconosciuto dal popolo e dall'opposizione politica, colui che dopo i decenni bui in cui era il grande Partito Comunista a guidare la coscienza e la cultura comune, finalmente libera l'Italia dal giogo di quella parte politica e la proietta automaticamente nella modernità. Berlusconi liberatore, Berlusconi come colui che ha veramente sconfitto il comunismo.
I prossimi 4 anni la Costituzione subirà un attacco mai visto. L'ex Caimano, il Cav supremo e potente però nello stesso tempo guascone e popolare, non appena avrà trasformato l'Italia in una Repubblica Presidenziale e ne avrà preso le assolute e intoccabili redini, finalmente sarà arrivato alla fine del suo percorso, costruito, passo dopo passo, nell'arco di quarant'anni.
Luciano Altomare
domenica 26 aprile 2009
Il 25 Aprile è la festa degli Antifascisti, non di tutti!
Paolo Ferrero
In seguito ad un improvvido invito rivolto da Franceschini a Berlusconi, si è riaperta la discussione sul 25 aprile come festa di tutti gli italiani. Vogliamo ribadire ancora una volta che il 25 aprile è la festa della liberazione dal nazifascismo, in cui si festeggia la vittoria dell'antifascismo contro il nazifascismo: senza questa vittoria in Italia non vi sarebbe la democrazia. Il 25 aprile è quindi la festa in cui ricordiamo e ribadiamo che l'antifascismo è il fondamento della democrazia e del vivere civile nel nostro Paese. In altri paesi europei la sconfitta del nazifascismo è stata principalmente un fatto militare, di eserciti. In Italia è stato un fatto politico, di popolo, che in nome dell'antifascismo ha contemporaneamente sconfitto la dittatura fascista e ha posto le basi per la democrazia costituzionale. L'antifascismo è a tutti gli effetti la religione civile del Paese, il punto fondante la possibile convivenza democratica tra diverse ipotesi politiche. L'antifascismo è la base materiale della democrazia nel nostro Paese.
Il 25 aprile è una festa nazionale, il presupposto della nascita della Costituzione repubblicana, proprio in quanto festeggia la vittoria dell'antifascismo sul fascismo. La festa del 25 aprile è quindi diventata in Italia una festa di parte semplicemente perché gran parte degli esponenti politici che oggi governano il Paese non si riconoscono nei valori dell'antifascismo. Larga parte della destra - e,segnatamente, Berlusconi - si è sempre rifiutata di dichiararsi antifascista perché si pone politicamente e moralmente in continuità con il fascismo; al massimo, su un terreno di equidistanza tra fascismo e antifascismo.
Nella lotta di liberazione la grande maggioranza dei dirigenti del Pdl sarebbe stata schierata con Salò o sarebbe rimasta alla finestra a guardare come andava a finire. Proporre il 25 aprile come festa di tutti, compresi i La Russa e i Berlusconi che oggi governano il Paese, vuol dire svuotare il 25 aprile della sua essenza antifascista per trasformarlo nella festa dell'unità del ceto politico presente nell'attuale parlamento. Una sorta di unità nazionale dei trasformisti.
Non a caso l'invito a Berlusconi viene dal Pd: il tratto saliente del centrosinistra negli ultimi venti anni è stata il costante espianto delle proprie radici, attuato sostituendo all'antifascismo l'unità nazionale. Mentre la parte maggioritaria della destra ha coltivato e per certi versi costruito e reinventato la propria tradizione, rifiutandosi pervicacemente di tagliare i ponti con il ventennio fascista, il centrosinistra si è esercitato quotidianamente nella distruzione della memoria. Mentre Zapatero rivendica le sue radici nell'esperienza della repubblica spagnola del '36, mentre Chirac preferisce perdere le elezioni piuttosto che allearsi con Le Pen, in Italia la destra di governo non ha confini di separazione con il neofascismo e il centrosinistra fa di tutto per scoprirsi orfano. Contro questo vergognoso abbraccio bipartisan, contro il trasformismo della sinistra moderata, rivendichiamo oggi, ancora una volta, che il 25 aprile è la festa dell'antifascismo e non può quindi essere una festa condivisa.
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=66460&pagina=1&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=456402
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=66461&pagina=2&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=456409
In seguito ad un improvvido invito rivolto da Franceschini a Berlusconi, si è riaperta la discussione sul 25 aprile come festa di tutti gli italiani. Vogliamo ribadire ancora una volta che il 25 aprile è la festa della liberazione dal nazifascismo, in cui si festeggia la vittoria dell'antifascismo contro il nazifascismo: senza questa vittoria in Italia non vi sarebbe la democrazia. Il 25 aprile è quindi la festa in cui ricordiamo e ribadiamo che l'antifascismo è il fondamento della democrazia e del vivere civile nel nostro Paese. In altri paesi europei la sconfitta del nazifascismo è stata principalmente un fatto militare, di eserciti. In Italia è stato un fatto politico, di popolo, che in nome dell'antifascismo ha contemporaneamente sconfitto la dittatura fascista e ha posto le basi per la democrazia costituzionale. L'antifascismo è a tutti gli effetti la religione civile del Paese, il punto fondante la possibile convivenza democratica tra diverse ipotesi politiche. L'antifascismo è la base materiale della democrazia nel nostro Paese.
Il 25 aprile è una festa nazionale, il presupposto della nascita della Costituzione repubblicana, proprio in quanto festeggia la vittoria dell'antifascismo sul fascismo. La festa del 25 aprile è quindi diventata in Italia una festa di parte semplicemente perché gran parte degli esponenti politici che oggi governano il Paese non si riconoscono nei valori dell'antifascismo. Larga parte della destra - e,segnatamente, Berlusconi - si è sempre rifiutata di dichiararsi antifascista perché si pone politicamente e moralmente in continuità con il fascismo; al massimo, su un terreno di equidistanza tra fascismo e antifascismo.
Nella lotta di liberazione la grande maggioranza dei dirigenti del Pdl sarebbe stata schierata con Salò o sarebbe rimasta alla finestra a guardare come andava a finire. Proporre il 25 aprile come festa di tutti, compresi i La Russa e i Berlusconi che oggi governano il Paese, vuol dire svuotare il 25 aprile della sua essenza antifascista per trasformarlo nella festa dell'unità del ceto politico presente nell'attuale parlamento. Una sorta di unità nazionale dei trasformisti.
Non a caso l'invito a Berlusconi viene dal Pd: il tratto saliente del centrosinistra negli ultimi venti anni è stata il costante espianto delle proprie radici, attuato sostituendo all'antifascismo l'unità nazionale. Mentre la parte maggioritaria della destra ha coltivato e per certi versi costruito e reinventato la propria tradizione, rifiutandosi pervicacemente di tagliare i ponti con il ventennio fascista, il centrosinistra si è esercitato quotidianamente nella distruzione della memoria. Mentre Zapatero rivendica le sue radici nell'esperienza della repubblica spagnola del '36, mentre Chirac preferisce perdere le elezioni piuttosto che allearsi con Le Pen, in Italia la destra di governo non ha confini di separazione con il neofascismo e il centrosinistra fa di tutto per scoprirsi orfano. Contro questo vergognoso abbraccio bipartisan, contro il trasformismo della sinistra moderata, rivendichiamo oggi, ancora una volta, che il 25 aprile è la festa dell'antifascismo e non può quindi essere una festa condivisa.
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=66460&pagina=1&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=456402
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=66461&pagina=2&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=456409
sabato 25 aprile 2009
Liberi e Comunisti
Buon 25 Aprile a tutti. Viva la Resistenza, viva i Partigiani, viva la Liberazione, viva l'Antifascismo!
mercoledì 22 aprile 2009
25 aprile, La Russa non ha titoli per parlare, Berlusconi se ne stia a casa, resistenza non è per loro
25 aprile, La Russa non ha titoli per parlare, Berlusconi se ne stia a casa, resistenza non è per loro
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Dichiarazione di Claudio Grassi, esponsabile Organizzazione segreteria nazionale del Prc-Se Il ministro alla Difesa La Russa che insulta i partigiani non ha alcun titolo per parlare di Liberazione e di Resistenza visto che ha militato, anzi è stato autorevole dirigente, di un partito, l'Msi, diretto erede di quel fascismo contro cui la Resistenza è nata e contro cui ha vittoriosamente combattuto. Nella lotta di Resistenza i comunisti sono stati la parte principale ed è grazie a loro che si deve la sconfitta del fascismo,che sono stati cacciati i tedeschi dal suolo nazionale e che è stata riconquistata la libertà. Questa è la verità storica, al di là delle farneticazioni e delle offese gratuite di La Russa. Il 25 aprile è la festa della libertà e della democrazia ed è giusto che vi partecipi chi si riconosce in quegli ideali e in quel patrimonio, e non altri, a partire da La Russa o da un premier come Berlusconi che non era nemmeno a conoscenza della morte di papà Cervi e che ignora quanto i Cervi hanno avuto a che fare, nella lotta partigiana e di Resistenza. E' molto meglio, dunque, che i vari La Russa e Berlusconi si occupino d'altro e facciano altro, il 25 aprile, invece di andare ad infangare e inquinare la memoria della Resistenza e della lotta di Liberazione. -- Ufficio stampa Prc-SE |
martedì 21 aprile 2009
Resistenza e Antifascismo sempre!
I fascisti non pentiti, il 25 aprile se ne vadano nelle loro ville in Sardegna: a celebrare in piazza la Liberazione, non li vogliamo!
lunedì 20 aprile 2009
Inchiestesondaggi.org
Il Dipartimento Inchiesta del PRC ha predisposto una nuova pagina di inchieste e sondaggi, on-line su www.inchiestesondaggi.org
Questo strumento innovativo consentirà di avere i risultati delle inchieste in tempo reale anche per chi compilerà il questionario.
Le inchieste che troverete attualmente disponibili sul sito sono l'inchiesta sui Consultori, sul Lavoro Sociale e sull’autofinanziamento del Partito (rivolta ai tesorieri delle Federazione e dei Circolo del PRC-SE).
Sulla stessa pagina si può accedere ai vari sondaggi che di volta in volta predisporremo/proporremo on-line e che riguarderanno tematiche attuali. Una sperimentazione di democrazia partecipata attraverso l’uso del digitale per liberare l’attenzione dell’opinione pubblica verso le tematiche sociali, con l’intento che entrino a pieno titolo nell’agenda politica italiana.
Questo strumento innovativo consentirà di avere i risultati delle inchieste in tempo reale anche per chi compilerà il questionario.
Le inchieste che troverete attualmente disponibili sul sito sono l'inchiesta sui Consultori, sul Lavoro Sociale e sull’autofinanziamento del Partito (rivolta ai tesorieri delle Federazione e dei Circolo del PRC-SE).
Sulla stessa pagina si può accedere ai vari sondaggi che di volta in volta predisporremo/proporremo on-line e che riguarderanno tematiche attuali. Una sperimentazione di democrazia partecipata attraverso l’uso del digitale per liberare l’attenzione dell’opinione pubblica verso le tematiche sociali, con l’intento che entrino a pieno titolo nell’agenda politica italiana.
domenica 19 aprile 2009
Tra le raccoglitrici della piana di Sibari: paga da fame e ricatto occupazionale
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=66159&pagina=20&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=454833
Laura Eduati
Castrovillari (Cs) - nostra inviata
Tredici centesimi di aumento in busta paga sono troppi. Questa è almeno l'opinione delle aziende agricole della piana di Sibari, ricca zona di frutteti e ortaggi che esporta il 60% del prodotto all'estero. Prodotti di alta qualità, certificati all'origine, che in tempo di crisi planetaria non sembrano avere subito contraccolpi. Le raccoglitrici e le confezionatrici di frutta, in maggior parte donne, guadagnano appena 5,58 euro l'ora per un lavoro stagionale faticoso, d'estate con le mani a rovistare i rami dei pescheti con quaranta gradi, per otto, nove o persino undici ore, senza neanche poter andare in bagno.
Lo scorso luglio i sindacati sono riusciti a strappare un nuovo contratto che farebbe guadagnare loro 5,71 euro, una miseria identica. Ma le ditte, tranne la Tocci, non vogliono applicare le nuove tabelle di retribuzione. E dire che non sono semplici cooperative, bensì aziende di caratura internazionale come Torre di Mezzo, Osas, Fratelli Nola, ciascuna con 500-800 dipendenti. «Se continua così torneremo ai tempi dei braccianti agricoli dei nostri nonni», proclama amaramente Emilia, delegata Cgil con quattro figli e un marito che lavora come lei alla Fratelli Nola come potatore, una qualifica maggiore.
Perché la questione non sono soltanto i 13 centesimi di euro negati: qui le donne sono assunte quasi esclusivamente come braccianti, mentre gli uomini ottengono mansioni e salario migliori, e nonostante il 70% circa della manodopera sia femminile, i caposquadra sono invariabilmente uomini. Uomini come i sindacalisti che le seguono e dovrebbero difendere i loro diritti. «Le donne costano meno» sintetizza Mario, marito di Emilia. E con questo vuole dire che le aziende preferiscono assumere donne anche come potatrici poiché comunque il salario è sempre quello, infimo, delle raccoglitrici.
«I padroni devono rispettare l'aumento contrattuale o agiremo per vie legali» promette Michele Tempo, segretario di comprensorio Flai-Cgil. Nelle prossime settimane potrebbe scattare lo sciopero. L'arma delle aziende è potente: non soltanto lo spettro della crisi, ma anche quello della delocalizzazione. Il ricatto occupazionale: una delle aziende ha già acquistato cinquecento ettari nei pressi di Hammamet, pronti per accogliere centinaia di pescheti. Il timore dei braccianti della piana di Sibari è quello di vedere chiudere i cancelli delle tenute agricole per sempre, come accadde per i cotonifici che vennero costruiti dalle aziende settentrionali negli anni '70 con i contributi pubblici e poi lentamente morirono di agonia negli anni '90.
Il contratto agricolo viene applicato anche alle confezionatrici della frutta che ricevono pesche e mandarini dalle aziende e devono distribuirle nelle cassette o dividerle nelle retine che poi troviamo nei supermercati. Lavoro, quest'ultimo, prettamente maschile perché computerizzato e dunque specialistico. Meno faticosa anche se meccanica la mansione delle confezionatrici come Franca, unghie leopardate e trucco perfetto: «Noi almeno abbiamo un tetto sopra la testa e non soffriamo le intemperie come le raccoglitrici». Franca è delegata sindacale come le altre e lavora alla Osas, che da queste parti è come dire «lavori all'Enel»: un privilegio, o una garanzia. Il privilegio di lavorare al chiuso, senza doversi bardare come contadine coi cappelli a larga tesa e gli scarponi grossi e informi. Nei campi basta un acquazzone improvviso, o una gelata, per sospendere la raccolta della frutta e quella giornata è persa. Vengono pagate a ore, e non esiste indennizzo per maltempo quando invece le aziende possono ricevere contributi straordinari per le avverse condizioni climatiche. Lo stipendio arriva a mille euro al mese nella stagione estiva che comincia a maggio e finisce a settembre, si raccoglie anche di domenica «perché la frutta non aspetta», dopo 35 o 40 anni di fatica riusciranno ad incassare appena 540 euro di pensione.
Queste donne non si arrendono. Loro, la battaglia sindacale all'interno delle aziende, la conducono con coraggio e malinconia. La malinconia di una generazione che ha vissuto gli anni '70 e ora teme di «fare un salto indietro». E non soltanto per l'offensiva dei padroni: «Siamo noi le prime a cedere» confessa Cristina, che emigrò a Torino nel 1970 e dopo due anni si fece assumere alla Fiat. Il racconto di quei formidabili anni le accende lo sguardo: «Facevamo picchetti, continui scioperi, mica entravano gli operai. Qui in Calabria la gente è come morta, accetta qualsiasi condizione col terrore di perdere il lavoro». Cristina lavora come confezionatrice lontano da qui, lontano dalla piana di Sibari dove almeno le braccianti sono sindacalizzate e difendono i 13 centesimi di aumento. A Corigliano le aziende agricole fanno il bello e il cattivo tempo, scrivono sulla basta paga che guadagni 6 euro l'ora e in mano te ne danno 3/4 per nove ore. «E se non ti va bene, smammi».
Giuseppina lavora nello stesso stabilimento, gli anni scorsi portava le braccianti con il furgone per 30 euro al giorno. L'accordo con la proprietà è chiaro: se lavori senza dare noie, magari il prossimo anno arriva un aumento. Dell'1%. «E per paura di perdere a' jurnata, stai zitta e accetti queste condizioni».
Nella piana di Sibari come a Corigliano, nessuna di queste donne riesce a vivere con il proprio stipendio. E molte devono far fronte a mariti disoccupati, oppure alla vedovanza. Giuseppina è single e dunque è costretta a vivere coi genitori, benché non giovanissima: «Non potrei permettermi un affitto». E il marito di un'altra Giuseppina è tornato definitivamente da Forlì dove faceva il muratore, ormai non valeva la pena restare perché l'affitto dell'appartamento succhiava quasi l'intero stipendio.
Sia come sia, i sindacati sono convinti che lentamente le condizioni di lavoro di queste braccianti sia migliorato negli ultimi anni. Per esempio ora gli enti locali hanno istituito un servizio di trasporto che accompagna le donne al lavoro da Castrovillari, Saracena, Acquaformosa e Firmo, a orari flessibili e persino a chiamata, il biglietto costa 1,5 euro. Prima esistevano i caporali che coi camioncini passavano nei paesini della piana e raccoglievano le braccianti per tre euro, uno sconto pesante sulla busta paga.
«Il sindacato siamo noi», avverte Giovanna, delegata Cgil della Osas, «siamo noi che fronteggiamo in prima linea i problemi e se non li risolviamo la colpa è nostra». Questo ripetono, le raccoglitrici e le confezionatrici: nessuno farà mai abbassare loro la testa, se non vorranno. E implicitamente prendono atto del cambiamento epocale, «è cambiata la politica e nessuno difende i nostri diritti». La politica, come no. Spesso le aziende spiegano ai lavoratori che tredici centesimi di aumento sono troppi poiché non hanno ancora ricevuto i finanziamenti dell'Unione europea o perché i mercati internazionali, maghrebini e spagnoli in primis, fanno troppa concorrenza. Oppure, altra questione, che l'Italia importa prodotti non certificati a prezzi bassissimi e dunque la frutta e gli ortaggi della Calabria perdono attrattiva per i clienti. «Questi non sono nostri problemi - sbotta Emilia - questi sono problemi che l'azienda deve porre ai politici perché altrimenti noi scontiamo ogni cosa e pare che i nostri stipendi siano sempre a perdere per la proprietà».
Il cambiamento della filiera si abbatte ancora una volta sulle donne della piana di Sibari. Ora che le aziende agricole vendono direttamente ai grossisti senza confezionare la frutta, sta lentamente scomparendo la figura delle cinquantuniste, le confezionatrici assunte per 51 giorni l'anno quando il ritmo del lavoro è pesante. Le raccoglitrici invece devono fare fronte all'introduzione di una nuova varietà di pesco, il vaso catalano, qualità simile ma forma diversa che consente una raccolta rapida, e cioè meno giorni di lavoro. Le condizioni, quelle, non cambiano mai: quando il sole picchia come un tamburo, le braccianti si avviano al raccolto coperte dalla testa ai piedi, il ronzìo dei carretti nelle orecchie. Non sono rari gli svenimenti. E il lavoro rimane uguale se sei incinta, fino al settimo mese. L'unico sollievo: le compagne che sollevano i pesanti cesti per evitarti la fatica. Franca, viso aperto e lunghi capelli biondi, sorride: «Eppure non vorrei mai lavorare al chiuso come le confezionatrici, preferisco la campagna con i suoi profumi e la vista che si perde nei pescheti».
Laura Eduati
Castrovillari (Cs) - nostra inviata
Tredici centesimi di aumento in busta paga sono troppi. Questa è almeno l'opinione delle aziende agricole della piana di Sibari, ricca zona di frutteti e ortaggi che esporta il 60% del prodotto all'estero. Prodotti di alta qualità, certificati all'origine, che in tempo di crisi planetaria non sembrano avere subito contraccolpi. Le raccoglitrici e le confezionatrici di frutta, in maggior parte donne, guadagnano appena 5,58 euro l'ora per un lavoro stagionale faticoso, d'estate con le mani a rovistare i rami dei pescheti con quaranta gradi, per otto, nove o persino undici ore, senza neanche poter andare in bagno.
Lo scorso luglio i sindacati sono riusciti a strappare un nuovo contratto che farebbe guadagnare loro 5,71 euro, una miseria identica. Ma le ditte, tranne la Tocci, non vogliono applicare le nuove tabelle di retribuzione. E dire che non sono semplici cooperative, bensì aziende di caratura internazionale come Torre di Mezzo, Osas, Fratelli Nola, ciascuna con 500-800 dipendenti. «Se continua così torneremo ai tempi dei braccianti agricoli dei nostri nonni», proclama amaramente Emilia, delegata Cgil con quattro figli e un marito che lavora come lei alla Fratelli Nola come potatore, una qualifica maggiore.
Perché la questione non sono soltanto i 13 centesimi di euro negati: qui le donne sono assunte quasi esclusivamente come braccianti, mentre gli uomini ottengono mansioni e salario migliori, e nonostante il 70% circa della manodopera sia femminile, i caposquadra sono invariabilmente uomini. Uomini come i sindacalisti che le seguono e dovrebbero difendere i loro diritti. «Le donne costano meno» sintetizza Mario, marito di Emilia. E con questo vuole dire che le aziende preferiscono assumere donne anche come potatrici poiché comunque il salario è sempre quello, infimo, delle raccoglitrici.
«I padroni devono rispettare l'aumento contrattuale o agiremo per vie legali» promette Michele Tempo, segretario di comprensorio Flai-Cgil. Nelle prossime settimane potrebbe scattare lo sciopero. L'arma delle aziende è potente: non soltanto lo spettro della crisi, ma anche quello della delocalizzazione. Il ricatto occupazionale: una delle aziende ha già acquistato cinquecento ettari nei pressi di Hammamet, pronti per accogliere centinaia di pescheti. Il timore dei braccianti della piana di Sibari è quello di vedere chiudere i cancelli delle tenute agricole per sempre, come accadde per i cotonifici che vennero costruiti dalle aziende settentrionali negli anni '70 con i contributi pubblici e poi lentamente morirono di agonia negli anni '90.
Il contratto agricolo viene applicato anche alle confezionatrici della frutta che ricevono pesche e mandarini dalle aziende e devono distribuirle nelle cassette o dividerle nelle retine che poi troviamo nei supermercati. Lavoro, quest'ultimo, prettamente maschile perché computerizzato e dunque specialistico. Meno faticosa anche se meccanica la mansione delle confezionatrici come Franca, unghie leopardate e trucco perfetto: «Noi almeno abbiamo un tetto sopra la testa e non soffriamo le intemperie come le raccoglitrici». Franca è delegata sindacale come le altre e lavora alla Osas, che da queste parti è come dire «lavori all'Enel»: un privilegio, o una garanzia. Il privilegio di lavorare al chiuso, senza doversi bardare come contadine coi cappelli a larga tesa e gli scarponi grossi e informi. Nei campi basta un acquazzone improvviso, o una gelata, per sospendere la raccolta della frutta e quella giornata è persa. Vengono pagate a ore, e non esiste indennizzo per maltempo quando invece le aziende possono ricevere contributi straordinari per le avverse condizioni climatiche. Lo stipendio arriva a mille euro al mese nella stagione estiva che comincia a maggio e finisce a settembre, si raccoglie anche di domenica «perché la frutta non aspetta», dopo 35 o 40 anni di fatica riusciranno ad incassare appena 540 euro di pensione.
Queste donne non si arrendono. Loro, la battaglia sindacale all'interno delle aziende, la conducono con coraggio e malinconia. La malinconia di una generazione che ha vissuto gli anni '70 e ora teme di «fare un salto indietro». E non soltanto per l'offensiva dei padroni: «Siamo noi le prime a cedere» confessa Cristina, che emigrò a Torino nel 1970 e dopo due anni si fece assumere alla Fiat. Il racconto di quei formidabili anni le accende lo sguardo: «Facevamo picchetti, continui scioperi, mica entravano gli operai. Qui in Calabria la gente è come morta, accetta qualsiasi condizione col terrore di perdere il lavoro». Cristina lavora come confezionatrice lontano da qui, lontano dalla piana di Sibari dove almeno le braccianti sono sindacalizzate e difendono i 13 centesimi di aumento. A Corigliano le aziende agricole fanno il bello e il cattivo tempo, scrivono sulla basta paga che guadagni 6 euro l'ora e in mano te ne danno 3/4 per nove ore. «E se non ti va bene, smammi».
Giuseppina lavora nello stesso stabilimento, gli anni scorsi portava le braccianti con il furgone per 30 euro al giorno. L'accordo con la proprietà è chiaro: se lavori senza dare noie, magari il prossimo anno arriva un aumento. Dell'1%. «E per paura di perdere a' jurnata, stai zitta e accetti queste condizioni».
Nella piana di Sibari come a Corigliano, nessuna di queste donne riesce a vivere con il proprio stipendio. E molte devono far fronte a mariti disoccupati, oppure alla vedovanza. Giuseppina è single e dunque è costretta a vivere coi genitori, benché non giovanissima: «Non potrei permettermi un affitto». E il marito di un'altra Giuseppina è tornato definitivamente da Forlì dove faceva il muratore, ormai non valeva la pena restare perché l'affitto dell'appartamento succhiava quasi l'intero stipendio.
Sia come sia, i sindacati sono convinti che lentamente le condizioni di lavoro di queste braccianti sia migliorato negli ultimi anni. Per esempio ora gli enti locali hanno istituito un servizio di trasporto che accompagna le donne al lavoro da Castrovillari, Saracena, Acquaformosa e Firmo, a orari flessibili e persino a chiamata, il biglietto costa 1,5 euro. Prima esistevano i caporali che coi camioncini passavano nei paesini della piana e raccoglievano le braccianti per tre euro, uno sconto pesante sulla busta paga.
«Il sindacato siamo noi», avverte Giovanna, delegata Cgil della Osas, «siamo noi che fronteggiamo in prima linea i problemi e se non li risolviamo la colpa è nostra». Questo ripetono, le raccoglitrici e le confezionatrici: nessuno farà mai abbassare loro la testa, se non vorranno. E implicitamente prendono atto del cambiamento epocale, «è cambiata la politica e nessuno difende i nostri diritti». La politica, come no. Spesso le aziende spiegano ai lavoratori che tredici centesimi di aumento sono troppi poiché non hanno ancora ricevuto i finanziamenti dell'Unione europea o perché i mercati internazionali, maghrebini e spagnoli in primis, fanno troppa concorrenza. Oppure, altra questione, che l'Italia importa prodotti non certificati a prezzi bassissimi e dunque la frutta e gli ortaggi della Calabria perdono attrattiva per i clienti. «Questi non sono nostri problemi - sbotta Emilia - questi sono problemi che l'azienda deve porre ai politici perché altrimenti noi scontiamo ogni cosa e pare che i nostri stipendi siano sempre a perdere per la proprietà».
Il cambiamento della filiera si abbatte ancora una volta sulle donne della piana di Sibari. Ora che le aziende agricole vendono direttamente ai grossisti senza confezionare la frutta, sta lentamente scomparendo la figura delle cinquantuniste, le confezionatrici assunte per 51 giorni l'anno quando il ritmo del lavoro è pesante. Le raccoglitrici invece devono fare fronte all'introduzione di una nuova varietà di pesco, il vaso catalano, qualità simile ma forma diversa che consente una raccolta rapida, e cioè meno giorni di lavoro. Le condizioni, quelle, non cambiano mai: quando il sole picchia come un tamburo, le braccianti si avviano al raccolto coperte dalla testa ai piedi, il ronzìo dei carretti nelle orecchie. Non sono rari gli svenimenti. E il lavoro rimane uguale se sei incinta, fino al settimo mese. L'unico sollievo: le compagne che sollevano i pesanti cesti per evitarti la fatica. Franca, viso aperto e lunghi capelli biondi, sorride: «Eppure non vorrei mai lavorare al chiuso come le confezionatrici, preferisco la campagna con i suoi profumi e la vista che si perde nei pescheti».
giovedì 16 aprile 2009
Speciale inchiesta operaia: Domina l'insicurezza ma non c'è la "guerra", effetti di una crisi
http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454440
Geografia delle paure
I questionari dell'inchiesta sono stati materialmente distribuiti negli ultimi mesi del 2008, quando la crisi era già nota, messa a tema dai media, ma non aveva ancora dispiegato tutti i suoi nefasti effetti occupazionali. Nonostante ciò i nostri intervistati sono esattamente spaccati a metà: il 50% non ritiene sicuro il proprio posto di lavoro, l'altro 50% sì. Se consideriamo che la nostra inchiesta è arrivata prevalentemente in fabbriche o in luoghi di servizio medio grandi, sindacalizzati e di settori produttivi non ciclici, il 50% di chi si sente insicuro è una percentuale decisamente alta. Questa percentuale è più alta nella stessa misura (di circa l'8%) per precari, donne e stranieri, ma è addirittura terribilmente più alta (di più del 15%) tra i giovani sotto i 30 anni, che abbiano o no un contratto precario. L'altro elemento particolarmente significativo è che, se escludiamo dal conteggio i lavoratori del comparto pubblico (che rappresentano circa l'8% del campione), la percentuale di coloro che hanno paura di perdere il posto di lavoro cresce solo di pochissimo. Questo perché, tra i lavoratori intervistati (esattamente come avviene nella realtà) il settore pubblico concentra in misura maggiore di quello privato i contratti precari e per di più i dipendenti pubblici non godono di nessun ammortizzatore sociale. C'è qui una prima prova della segmentazione di cui parlavamo. Riguarda i soggetti deboli del mercato del lavoro (donne, giovani, stranieri), ovunque si trovino. Ma il nostro campione spaccato a metà tra chi ha paura e chi è sicuro è una classica "media del pollo", soprattutto dal punto di vista territoriale. Infatti oltre ai soggetti più deboli ci sono - specialmente in Italia - territori più sensibili perché vi sono localizzate imprese insufficientemente competitive, o addirittura non vi sono localizzate imprese. La prima frattura territoriale, sebbene se ne parli incredibilmente poco (proprio come tutti i fenomeni sociali importanti che avvengono sottotraccia prima di esplodere), è quella storica fra Nord e Sud. I lavoratori della Stm di Catania pur essendo tutti maschi, molto qualificati (inquadrati almeno al 5° livello), dotati di una certa anzianità aziendale in una delle più importanti multinazionali operanti nel campo delle nuove tecnologie, hanno paura di perdere il posto per percentuali che sfiorano il 70%; risultati simili si hanno al petrolchimico di Sassari e, addirittura peggiori, in un call center di Vibo Valentia, città dove agli alti tassi di disoccupazione si aggiunge l'instabilità tipica delle attività lavorativa dei servizi a bassa produttività. È evidentemente la consapevolezza di un contesto territoriale dove la disoccupazione di lunga durata è la condizione dominante del mercato del lavoro a instillare così tanta paura. Del resto il fattore territoriale è intersecato con la segmentazione tra soggetti deboli e forti del mercato del lavoro. In aree economiche e industriali forti del paese come Padova e Milano, ma dove la composizione operaia fa registrare un'alta incidenza di stranieri e donne (a Milano impiegate come centraliniste) vi è una quota di lavoratori che non ritiene sicuro il proprio posto di lavoro intermedia tra quella del Mezzogiorno e quella di Verona dove è l'86% ad aver risposto che non teme di perdere il lavoro. Nell'estrema differenziazione questi dati registrano comunque un notevole deterioramento della prospettiva, che entra prima nella vita dei lavoratori per poi modificarne la stessa scala di priorità all'interno del luogo di lavoro. In tutti i posti di lavoro, con percentuali schiaccianti lì dove più alta era la paura di perdere il posto, la prima urgenza viene considerata conservare il proprio posto, prima dello stesso salario e molto più delle condizioni di salute sul luogo di lavoro. Uniche eccezioni, nella stessa logica esposta sopra, sono le risposte ottenute dai lavoratori di Parma, Trieste e Verona, che operai maschi di aziende in buona salute, indicano il salario come prima priorità. La particolarità di questa paura è che non viene percepita in prima istanza come una paura personale. La maggioranza dei lavoratori in quasi tutti i luoghi di lavoro (probabilmente anche per effetto della selezione involontaria del nostro campione verso i lavoratori meno fragili) si percepisce come più sicura del proprio compagno di lavoro. L'insicurezza che si vede arrivare riguarda quindi tutti, intere fabbriche, luoghi produttivi e distretti industriali che rischiano la chiusura permanente.
L'uscita da destra
È ovvio che in queste condizioni ogni sviluppo nella situazione sociale è possibile. In particolar modo l'inchiesta si occupava di verificare quanti lavoratori si fossero lasciati attrarre dalle sirene leghiste della "guerra tra poveri". Diciamo subito che sicuramente non sono la maggioranza. Nei luoghi dove abbiamo campioni veramente larghi e rappresentativi (Catania e il distretto di Civita Castellana) si possono riscontrare risposte che lasciano presagire la colpevolizzazione dell'altro al proprio fianco. Specificatamente nelle domande venivano indicati due tipi di lavoratori da licenziare "prima", gli extra-comunitari e i "menefreghisti", ma le due risposte insieme non oltrepassano mai una soglia - comunque significativa - del 20%. È diffusa alla stessa maniera la risposta di chi vorrebbe tutelare i lavoratori più anziani. Non è evidentemente un segnale di "guerra tra poveri", ma è una proposta che distingue tra lavoratori e colpisce che queste risposte siano più presenti proprio nei settori o fasce di lavoratori più deboli piuttosto che nelle fabbriche più sindacalizzate e al riparo dalla crisi.
Il questionario però, tentava anche di misurare veri e propri atteggiamenti discriminatori nei confronti dei lavoratori stranieri. Anche qui la prospettiva di una xenofobia diffusa ne esce quantomeno ridimensionato. Chi pensa che i lavoratori stranieri rubino il posto agli italiani è soltanto il 9%. Quello che colpisce di più però è che i picchi di questo 9% si ritrovino in posti di lavoro, e talvolta in luoghi territoriali dove la presenza straniera è bassissima o nulla. Questo dato è coerente con i risultati di un'altra risposta che, pur contenendo elementi di verità, si avvicina maggiormente alla colpevolizzazione dello straniero. Il 16%, infatti, risponde che gli stranieri accettano salari che abbassano le condizioni di tutti, ma le percentuali più alte in questa risposta vengono da luoghi di lavoro dove la presenza di lavoratori stranieri è addirittura nulla, e dove non si crea una competizione tra forza lavoro straniera e italiana come può succedere in alcuni settori. Questi elementi ci suggeriscono che la diffidenza sul posto di lavoro non è un atteggiamento naturale che nascerebbe dalla "concorrenza sleale" dei lavoratori stranieri, ma è molto di più una forma mentis che matura sul territorio grazie alle campagne xenofobe e al clima razzista montante nel nostro paese. Questo clima inquina la dinamica sociale in maniera pericolosissima perché una volta identificato il nemico interno nel lavoratore non italiano, che è anche quello meno protetto, non c'è più nessun limite nello scaricare la responsabilità sulle posizioni più deboli della classe operaia invece che sui padroni e sui governanti. Questo atteggiamento minoritario purtroppo esiste già, formato come posizione coerente tra alcuni lavoratori.
L'inchiesta chiedeva ai lavoratori una distinzione tra chi vuole lottare insieme ai precari e chi li considera una zavorra. I primi sono evidentemente una maggioranza schiacciante. Il punto però è che, tra i pochi che considerano i precari una zavorra - come è possibile leggere nel grafico riportato in questa stessa pagina -, anche le posizioni discriminatorie nei confronti degli stranieri sono prevalenti.
Tra l'altro l'inchiesta in una multinazionale dell'elettronica di Trieste ci ha fatto capire che la "guerra tra poveri" non ha una sola direzione e si può trasformare in una guerra di tutti contro tutti. In un contesto aziendale dove ci sono molti precari con un'altissima anzianità aziendale, la frustrazione per la propria condizione ha spinto la maggioranza di loro su posizioni conservatrici e non più conflittuali.
L'uscita da sinistra
Fin qui abbiamo esposto i rischi di una crisi che agisce su un mondo del lavoro già segmentato. Altrettante però sono le opportunità. Innanzitutto perché, se si eccettuano i casi di lavoro meno garantito (come le lavoratrici del call center di Vibo Valentia), le posizioni di sfiducia assoluta verso i sindacati perché troppo moderati o troppo estremisti, sono residuali, e quindi c'è ancora una propensione all'associazione e al conflitto. Questa ipotesi è confermata dal fatto che dappertutto, al Nord come al Sud, in aziende più e meno coinvolte nella crisi, permane tra i lavoratori l'opzione della lotta unitaria come scelta preferenziale per difendere le garanzie occupazionali. Una "retorica positiva" che nelle fabbriche più sindacalizzate sfocia anche nella proposta "politica" di ridurre l'orario a parità di salario (27% in media ma più del 30% nelle fabbriche metalmeccaniche). Anche se pesa la debolezza dei risultati raggiunti in questi anni e - soprattutto nei siti produttivi meridionali - la detassazione dei salari viene indicata dalla maggioranza relativa dei lavoratori (il 40%) come la via migliore per la difesa dei salari. Il 27% (con punte molto alte nelle fabbriche metalmeccaniche), però, chiede la reintroduzione della scala mobile e, pochi di meno (il 22%), aumenti ottenuti tramite i contratti nazionali di categoria. Fin qui abbiamo riscontrato che le punte più "politiche" si riscontrano nelle fabbriche metalmeccaniche del nord, ma c'è un altro elemento di assoluto interesse per la proposta politica nella nostra inchiesta. Il salario sociale come proposta universalistica di ammortizzatore sociale raccoglie la maggioranza relativa (il 34%) delle preferenze degli intervistati su come difendere il reddito dei lavoratori sospesi dal lavoro e/o licenziati. Questa risposta si afferma non solo nei territori meridionali devastati dalla disoccupazione, ma anche nei posti di lavoro pubblici e in alcune fabbriche del nord industriale (Lodi e Bergamo), dimostrando il suo potenziale unificante. Un'opportunità da cogliere.
Geografia delle paure
I questionari dell'inchiesta sono stati materialmente distribuiti negli ultimi mesi del 2008, quando la crisi era già nota, messa a tema dai media, ma non aveva ancora dispiegato tutti i suoi nefasti effetti occupazionali. Nonostante ciò i nostri intervistati sono esattamente spaccati a metà: il 50% non ritiene sicuro il proprio posto di lavoro, l'altro 50% sì. Se consideriamo che la nostra inchiesta è arrivata prevalentemente in fabbriche o in luoghi di servizio medio grandi, sindacalizzati e di settori produttivi non ciclici, il 50% di chi si sente insicuro è una percentuale decisamente alta. Questa percentuale è più alta nella stessa misura (di circa l'8%) per precari, donne e stranieri, ma è addirittura terribilmente più alta (di più del 15%) tra i giovani sotto i 30 anni, che abbiano o no un contratto precario. L'altro elemento particolarmente significativo è che, se escludiamo dal conteggio i lavoratori del comparto pubblico (che rappresentano circa l'8% del campione), la percentuale di coloro che hanno paura di perdere il posto di lavoro cresce solo di pochissimo. Questo perché, tra i lavoratori intervistati (esattamente come avviene nella realtà) il settore pubblico concentra in misura maggiore di quello privato i contratti precari e per di più i dipendenti pubblici non godono di nessun ammortizzatore sociale. C'è qui una prima prova della segmentazione di cui parlavamo. Riguarda i soggetti deboli del mercato del lavoro (donne, giovani, stranieri), ovunque si trovino. Ma il nostro campione spaccato a metà tra chi ha paura e chi è sicuro è una classica "media del pollo", soprattutto dal punto di vista territoriale. Infatti oltre ai soggetti più deboli ci sono - specialmente in Italia - territori più sensibili perché vi sono localizzate imprese insufficientemente competitive, o addirittura non vi sono localizzate imprese. La prima frattura territoriale, sebbene se ne parli incredibilmente poco (proprio come tutti i fenomeni sociali importanti che avvengono sottotraccia prima di esplodere), è quella storica fra Nord e Sud. I lavoratori della Stm di Catania pur essendo tutti maschi, molto qualificati (inquadrati almeno al 5° livello), dotati di una certa anzianità aziendale in una delle più importanti multinazionali operanti nel campo delle nuove tecnologie, hanno paura di perdere il posto per percentuali che sfiorano il 70%; risultati simili si hanno al petrolchimico di Sassari e, addirittura peggiori, in un call center di Vibo Valentia, città dove agli alti tassi di disoccupazione si aggiunge l'instabilità tipica delle attività lavorativa dei servizi a bassa produttività. È evidentemente la consapevolezza di un contesto territoriale dove la disoccupazione di lunga durata è la condizione dominante del mercato del lavoro a instillare così tanta paura. Del resto il fattore territoriale è intersecato con la segmentazione tra soggetti deboli e forti del mercato del lavoro. In aree economiche e industriali forti del paese come Padova e Milano, ma dove la composizione operaia fa registrare un'alta incidenza di stranieri e donne (a Milano impiegate come centraliniste) vi è una quota di lavoratori che non ritiene sicuro il proprio posto di lavoro intermedia tra quella del Mezzogiorno e quella di Verona dove è l'86% ad aver risposto che non teme di perdere il lavoro. Nell'estrema differenziazione questi dati registrano comunque un notevole deterioramento della prospettiva, che entra prima nella vita dei lavoratori per poi modificarne la stessa scala di priorità all'interno del luogo di lavoro. In tutti i posti di lavoro, con percentuali schiaccianti lì dove più alta era la paura di perdere il posto, la prima urgenza viene considerata conservare il proprio posto, prima dello stesso salario e molto più delle condizioni di salute sul luogo di lavoro. Uniche eccezioni, nella stessa logica esposta sopra, sono le risposte ottenute dai lavoratori di Parma, Trieste e Verona, che operai maschi di aziende in buona salute, indicano il salario come prima priorità. La particolarità di questa paura è che non viene percepita in prima istanza come una paura personale. La maggioranza dei lavoratori in quasi tutti i luoghi di lavoro (probabilmente anche per effetto della selezione involontaria del nostro campione verso i lavoratori meno fragili) si percepisce come più sicura del proprio compagno di lavoro. L'insicurezza che si vede arrivare riguarda quindi tutti, intere fabbriche, luoghi produttivi e distretti industriali che rischiano la chiusura permanente.
L'uscita da destra
È ovvio che in queste condizioni ogni sviluppo nella situazione sociale è possibile. In particolar modo l'inchiesta si occupava di verificare quanti lavoratori si fossero lasciati attrarre dalle sirene leghiste della "guerra tra poveri". Diciamo subito che sicuramente non sono la maggioranza. Nei luoghi dove abbiamo campioni veramente larghi e rappresentativi (Catania e il distretto di Civita Castellana) si possono riscontrare risposte che lasciano presagire la colpevolizzazione dell'altro al proprio fianco. Specificatamente nelle domande venivano indicati due tipi di lavoratori da licenziare "prima", gli extra-comunitari e i "menefreghisti", ma le due risposte insieme non oltrepassano mai una soglia - comunque significativa - del 20%. È diffusa alla stessa maniera la risposta di chi vorrebbe tutelare i lavoratori più anziani. Non è evidentemente un segnale di "guerra tra poveri", ma è una proposta che distingue tra lavoratori e colpisce che queste risposte siano più presenti proprio nei settori o fasce di lavoratori più deboli piuttosto che nelle fabbriche più sindacalizzate e al riparo dalla crisi.
Il questionario però, tentava anche di misurare veri e propri atteggiamenti discriminatori nei confronti dei lavoratori stranieri. Anche qui la prospettiva di una xenofobia diffusa ne esce quantomeno ridimensionato. Chi pensa che i lavoratori stranieri rubino il posto agli italiani è soltanto il 9%. Quello che colpisce di più però è che i picchi di questo 9% si ritrovino in posti di lavoro, e talvolta in luoghi territoriali dove la presenza straniera è bassissima o nulla. Questo dato è coerente con i risultati di un'altra risposta che, pur contenendo elementi di verità, si avvicina maggiormente alla colpevolizzazione dello straniero. Il 16%, infatti, risponde che gli stranieri accettano salari che abbassano le condizioni di tutti, ma le percentuali più alte in questa risposta vengono da luoghi di lavoro dove la presenza di lavoratori stranieri è addirittura nulla, e dove non si crea una competizione tra forza lavoro straniera e italiana come può succedere in alcuni settori. Questi elementi ci suggeriscono che la diffidenza sul posto di lavoro non è un atteggiamento naturale che nascerebbe dalla "concorrenza sleale" dei lavoratori stranieri, ma è molto di più una forma mentis che matura sul territorio grazie alle campagne xenofobe e al clima razzista montante nel nostro paese. Questo clima inquina la dinamica sociale in maniera pericolosissima perché una volta identificato il nemico interno nel lavoratore non italiano, che è anche quello meno protetto, non c'è più nessun limite nello scaricare la responsabilità sulle posizioni più deboli della classe operaia invece che sui padroni e sui governanti. Questo atteggiamento minoritario purtroppo esiste già, formato come posizione coerente tra alcuni lavoratori.
L'inchiesta chiedeva ai lavoratori una distinzione tra chi vuole lottare insieme ai precari e chi li considera una zavorra. I primi sono evidentemente una maggioranza schiacciante. Il punto però è che, tra i pochi che considerano i precari una zavorra - come è possibile leggere nel grafico riportato in questa stessa pagina -, anche le posizioni discriminatorie nei confronti degli stranieri sono prevalenti.
Tra l'altro l'inchiesta in una multinazionale dell'elettronica di Trieste ci ha fatto capire che la "guerra tra poveri" non ha una sola direzione e si può trasformare in una guerra di tutti contro tutti. In un contesto aziendale dove ci sono molti precari con un'altissima anzianità aziendale, la frustrazione per la propria condizione ha spinto la maggioranza di loro su posizioni conservatrici e non più conflittuali.
L'uscita da sinistra
Fin qui abbiamo esposto i rischi di una crisi che agisce su un mondo del lavoro già segmentato. Altrettante però sono le opportunità. Innanzitutto perché, se si eccettuano i casi di lavoro meno garantito (come le lavoratrici del call center di Vibo Valentia), le posizioni di sfiducia assoluta verso i sindacati perché troppo moderati o troppo estremisti, sono residuali, e quindi c'è ancora una propensione all'associazione e al conflitto. Questa ipotesi è confermata dal fatto che dappertutto, al Nord come al Sud, in aziende più e meno coinvolte nella crisi, permane tra i lavoratori l'opzione della lotta unitaria come scelta preferenziale per difendere le garanzie occupazionali. Una "retorica positiva" che nelle fabbriche più sindacalizzate sfocia anche nella proposta "politica" di ridurre l'orario a parità di salario (27% in media ma più del 30% nelle fabbriche metalmeccaniche). Anche se pesa la debolezza dei risultati raggiunti in questi anni e - soprattutto nei siti produttivi meridionali - la detassazione dei salari viene indicata dalla maggioranza relativa dei lavoratori (il 40%) come la via migliore per la difesa dei salari. Il 27% (con punte molto alte nelle fabbriche metalmeccaniche), però, chiede la reintroduzione della scala mobile e, pochi di meno (il 22%), aumenti ottenuti tramite i contratti nazionali di categoria. Fin qui abbiamo riscontrato che le punte più "politiche" si riscontrano nelle fabbriche metalmeccaniche del nord, ma c'è un altro elemento di assoluto interesse per la proposta politica nella nostra inchiesta. Il salario sociale come proposta universalistica di ammortizzatore sociale raccoglie la maggioranza relativa (il 34%) delle preferenze degli intervistati su come difendere il reddito dei lavoratori sospesi dal lavoro e/o licenziati. Questa risposta si afferma non solo nei territori meridionali devastati dalla disoccupazione, ma anche nei posti di lavoro pubblici e in alcune fabbriche del nord industriale (Lodi e Bergamo), dimostrando il suo potenziale unificante. Un'opportunità da cogliere.
mercoledì 15 aprile 2009
Speciale inchiesta operaia!
http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454434
Duemila questionari somministrati a operai, e impiegati di aziende private e pubbliche; ventuno le domande poste. L'inchiesta sul lavoro e la crisi voluta da Rifondazione comunista rende un quadro abbastanza fedele dello stato d'animo in cui si trovano milioni di lavoratori in Italia costretti a fronteggiare le pesanti difficoltà in cui versa l'industria italiana e mondiale. I padroni fanno pagare ai lavoratori le scellerate scelte finanziarie di un sistema economico giunto ormai al limite. Maestranze di intere fabbriche vivono l'ansia della cassa integrazione e della mobilità in un tessuto produttivo reso incapace di riassorbire la forza lavoro disoccupata. Rischi di guerre fra poveri e sacrifici nelle famiglie. Ancora una volta pagano, come al solito, i più deboli
http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454435
http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454445
Paolo Ferrero
Segretario nazionale Prc-Se
Al venir meno della forza sociale e politica del movimento dei lavoratori ha corrisposto in questi ultimi decenni la quasi completa scomparsa di studi e ricerche capaci di descrivere sia la concreta realtà dello sfruttamento sia la persistente contraddizione tra capitale e lavoro e quindi le persistenti tendenze, magari nascoste o sviate, al conflitto. Non che siano mancate, in questi anni, inchieste e analisi sul mondo del lavoro, o che sia venuta meno qualunque attenzione agli strati più poveri della società (pensiamo, per quanto riguarda questi ultimi, soprattutto alle pregevoli indagini della Caritas). Ma in quasi tutti i casi il committente dell'indagine non è più un movimento sindacale e politico interessato a fare dell'inchiesta uno strumento di crescita del conflitto. Sono piuttosto istituzioni, università, associazioni caritatevoli; enti per i quali sia la vecchia classe operaia che i nuovi lavoratori sono solo oggetto : di politiche pubbliche, di redditizi progetti di ricerca, di interventi di solidarietà. Da protagonista dell' azione sociale la classe operaia è divenuta parte della più tradizionale questione sociale , intesa come questione accessoria e secondaria rispetto a quella della crescita capitalistica. Al massimo, al lavoro viene assegnato il ruolo di "risorsa umana", da considerarsi al pari di altre risorse e al pari di altri "stakeholder": consumatori, imprese di filiera, cittadini e istituzioni territoriali. Solo occasionalmente, e solo a seguito di gravi incidenti mortali, la pesante realtà materiale del lavoro torna alla luce: ma non come problema civile e politico, bensì come uno dei tanti orrori da servire nel mercato televisivo, condito da abbondanti dosi di finta indignazione e di insopportabile patetismo.
Il risultato di tutto ciò è che ormai il mondo del lavoro e delle classi subalterne è quasi del tutto sconosciuto, anche a chi, come noi, vorrebbe trovare proprio in questo mondo il principale referente della propria azione politica. Una situazione, questa, che dipende anche da ragioni interne al nostro modo di fare politica: da una certa abitudine, favorita dalla necessità di tener testa alla macchina ideologica neoliberista, a costruirsi l'immagine consolatoria di una classe operaia sempre uguale a sè stessa; ma soprattutto dal grave allontanamento dalle classi popolari a causa di politiche autoreferenziali e di derive istituzionalistiche.
Da questo discende la decisione di far sì che l'inchiesta divenga una delle modalità normali del rapporto del partito con una società in continua trasformazione, uno dei più importanti mezzi per la ricostruzione del radicamento sociale del partito: nella convinzione che le cose che non conosciamo sono maggiori di quelle che crediamo di conoscere. Una decisione che diviene ancor più importante oggi, quando la crisi accelera e modifica tutte le dinamiche sociali e ci impone di aggiornarci continuamente sulle evoluzioni delle condizioni di vita e delle aspettative di quella che chiamiamo la "nostra" gente. Se, come è giusto, poniamo la ripresa del conflitto come condizione essenziale di una politica di contrasto alla gestione capitalistica della crisi, la comprensione dettagliata del modo in cui i conflitti concretamente si attuano o possono attuarsi è condizione essenziale di una credibile politica dei comunisti.
Da tutto questo è nata l'idea di questa prima inchiesta nazionale sull'atteggiamento dei lavoratori di fronte alla crisi: un tentativo di percepire "in tempo reale" le tendenze dei lavoratori per ricavarne indicazioni sul nostro intervento.
Va detto subito che la prima indicazione riguarda proprio la persistente inadeguatezza del partito rispetto al compito dell'inchiesta, inadeguatezza mostrata dall'ancora insufficiente diffusione e raccolta dei questionari. Si tratta di una carenza comprensibile in un partito che è impegnato, su molteplici fronti, in una dura battaglia politica e che naturalmente fatica a dotarsi di strumenti nuovi: come si suol dire, dobbiamo riparare il motore mentre l'auto è in corsa, e non è affatto semplice. Ma bisogna farlo, e accanto a un "riaggiustamento" dei modi e dei tempi dell'inchiesta, va condotto un serio confronto politico nelle strutture del partito, mirato alla diffusione e alla piena utilizzazione di questo strumento.
Tale confronto può essere facilitato dal fatto che i primi e pur parziali risultati della nostra inchiesta sono già sufficienti ad accendere l'interesse per ulteriori approfondimenti.
Dalle risposte raccolte emergono infatti dei sintomi assai interessanti che, pur se relativi a una parte limitata dei lavoratori (quella più "classica", maggiormente stabile, concentrata in unità produtive medio-grandi, a maggioranza adulta e di sesso maschile), ci dicono cose non scontate che meritano di essere oggetto di verifica e di particolare riflessione politica.
Il dato forse più significativo è che l'ideologia della "guerra tra i poveri" non ha conquistato la parte più combattiva e organizzata della classe: i lavoratori che pensano di rispondere alla crisi scaricandone gli effetti su precari e immigrati, dall'inchiesta risultano essere molti di meno di quelli che puntano su una forte azione comune di difesa. Questo dato è sostanzialmente confermato dal clima registrato in assemblea da vari sindacalisti. Potremo quindi dire che per quanto riguarda il tessuto delle aziende sindacalizzate, ad oggi, non si verifica uno scivolamento significativo verso posizioni da "guerra tra i poveri" che sarebbe quindi un elemento più agito dall'esterno (la Lega Nord) che un dato interno al mondo del lavoro. Procedendo con molta cautela, si tratta quindi di monitorare il fenomeno con attenzione, anche perché su questo punto non abbiamo dati precedenti che permettano di comprendere l'evoluzione delle posizioni corporative e razziste, e sarà necessario controllare costantemente il modificarsi degli atteggiamenti.
Molto interessanti, inoltre, sono le considerazioni sugli strumenti e sugli obiettivi dell'azione collettiva. Quanto agli strumenti emerge una chiara opzione verso un sindacato "forte e unitario", che però non si traduce in un affidamento passivo alle strutture esistenti: di queste infatti si contesta molto più l'arrendevolezza che l'"eccesso" di conflittualità, e parti significative di lavoratori indicano l'esigenza di un rinnovamento, attraverso la creazione di nuovi sindacati o attraverso il rafforzamento di strutture di base. Più tradizionale, e sotto molti aspetti più ovvia, è invece l'individuazione degli obiettivi: la difesa del posto di lavoro viene infatti indicata come obiettivo più importante rispetto all'aumento del salario e al miglioramento delle condizioni di lavoro; le ipotesi di salario sociale sono preferite al rafforzamento della cassa integrazione soprattutto nelle realtà a minore industrializzazione, come quella meridionale. Meno ovvie sono forse le considerazioni sul modo migliore per difendere il salario: pochi sono coloro che puntano sulla contrattazione aziendale (smentendo così l'idea dell'adesione dei lavoratori allo smantellamento del contratto nazionale), maggiore è il numero di coloro che fanno affidamento sulla contrattazione nazionale, ma prevalente è il numero di coloro che indicano come soluzione la diminuzione delle tasse sui redditi da lavoro dipendente. Questo atteggiamento è probabilmente il frutto di più elementi, a partire dalla consapevolezza della propria posizione di scarsa forza nel rapporto contrattuale con la controparte e da una accentuata delega al terreno della politica per la soluzione dei problemi che un tempo venivano affrontati e risolti direttamente sul terreno strettamente sindacale.
Si tratta solo di sintomi, conviene ripeterlo, ma comunque assai interessanti, perché indicano che, probabilmente, divisioni e sfiducia non sono ancora penetrate a fondo in alcuni importanti comparti del lavoro, che una lotta collettiva e unificante è ancora possibile, e che i suoi strumenti e i suoi obiettivi sono in parte univoci, ma in parte sono soggetti a interpretazioni molteplici e a soluzioni differenziate. Ed è in particolare qui che deve situarsi l'intervento del partito, nel selezionare gli obiettivi che abbiano maggiore capacità unificante, nel proporli ai lavoratori sia direttamente sia attraverso l'azione dei nostri militanti sindacali, nell'impegnarsi per modalità democratiche di definizione delle piattaforme.
Certo, nel nostro campione sono sottorappresentate parti importanti del mondo del lavoro (donne, precari, atipici, immigrati, lavoratori delle piccole imprese e lavoratori formalmente autonomi), alcune delle quali sono spesso ritenute più permeabili alle tendenze individualistiche e in senso lato "leghiste". Ma come raggiungere questi lavoratori che, per definizione, sono dispersi nelle più frantumate unità produttive o negli intricati e mobili territori urbani? Saranno necessari, certamente, nuovi accorgimenti analitici, scelte di particolari campioni, ecc. Ma non basterà affinare le tecniche di ricerca: infatti le parti maggiormente disperse e frammentate del lavoro possono essere intercettate solo se e in quanto crescono la presenza e l'influenza politica del partito. Ed anche per questo bisogna insistere sul partito sociale : tra i suoi molteplici effetti, quest'ultimo ha infatti anche quello di costruire, attraverso esperienze mutualistiche che si realizzano più nei territori che nelle imprese, i luoghi in cui tutto il lavoro, anche quello atipico, precario e meno organizzato, può convergere, riconoscersi ed essere riconosciuto. I luoghi in cui, dato il tipo delle questioni affrontate (generalmente esterne al terreno produttivo, e relative piuttosto alla riproduzione: consumo, assistenza, gestione della vita quotidiana) le donne assumono ruoli ancor più incisivi e dunque meglio si prestano all'interlocuzione.
Il partito sociale è già di per sè stesso un iniziale ed elementare momento di inchiesta, perché ci mette in rapporto con persone che da tempo non incontravamo più e con dimensioni che raramente abbiamo frequentato; perché ci permette di conoscere con maggior precisione i bisogni e di far parlare chi, in genere, non ha voce nell'attuale dibattito "pubblico". Allargando ulteriormente le sue reti il partito sociale può, in aggiunta, creare i bacini da cui attingere nuove conoscenze sulla vita, sul lavoro, sulla propensione alla mobilitazione di tutti coloro che costituiscono il fluttuante universo di quel lavoro "mobile" che oggi è particolarmente esposto all'insicurezza e quindi alla propaganda sicuritaria e che domani, se sapremo ben intrecciare inchiesta e azione politica, diverrà la base di un nuovo, diffuso movimento anticapitalista.
Duemila questionari somministrati a operai, e impiegati di aziende private e pubbliche; ventuno le domande poste. L'inchiesta sul lavoro e la crisi voluta da Rifondazione comunista rende un quadro abbastanza fedele dello stato d'animo in cui si trovano milioni di lavoratori in Italia costretti a fronteggiare le pesanti difficoltà in cui versa l'industria italiana e mondiale. I padroni fanno pagare ai lavoratori le scellerate scelte finanziarie di un sistema economico giunto ormai al limite. Maestranze di intere fabbriche vivono l'ansia della cassa integrazione e della mobilità in un tessuto produttivo reso incapace di riassorbire la forza lavoro disoccupata. Rischi di guerre fra poveri e sacrifici nelle famiglie. Ancora una volta pagano, come al solito, i più deboli
Dall'inchiesta al partito sociale
per una politica efficace
http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454435
http://liberazione.it/giornale_articolo.ph...articolo=454445
Paolo Ferrero
Segretario nazionale Prc-Se
Al venir meno della forza sociale e politica del movimento dei lavoratori ha corrisposto in questi ultimi decenni la quasi completa scomparsa di studi e ricerche capaci di descrivere sia la concreta realtà dello sfruttamento sia la persistente contraddizione tra capitale e lavoro e quindi le persistenti tendenze, magari nascoste o sviate, al conflitto. Non che siano mancate, in questi anni, inchieste e analisi sul mondo del lavoro, o che sia venuta meno qualunque attenzione agli strati più poveri della società (pensiamo, per quanto riguarda questi ultimi, soprattutto alle pregevoli indagini della Caritas). Ma in quasi tutti i casi il committente dell'indagine non è più un movimento sindacale e politico interessato a fare dell'inchiesta uno strumento di crescita del conflitto. Sono piuttosto istituzioni, università, associazioni caritatevoli; enti per i quali sia la vecchia classe operaia che i nuovi lavoratori sono solo oggetto : di politiche pubbliche, di redditizi progetti di ricerca, di interventi di solidarietà. Da protagonista dell' azione sociale la classe operaia è divenuta parte della più tradizionale questione sociale , intesa come questione accessoria e secondaria rispetto a quella della crescita capitalistica. Al massimo, al lavoro viene assegnato il ruolo di "risorsa umana", da considerarsi al pari di altre risorse e al pari di altri "stakeholder": consumatori, imprese di filiera, cittadini e istituzioni territoriali. Solo occasionalmente, e solo a seguito di gravi incidenti mortali, la pesante realtà materiale del lavoro torna alla luce: ma non come problema civile e politico, bensì come uno dei tanti orrori da servire nel mercato televisivo, condito da abbondanti dosi di finta indignazione e di insopportabile patetismo.
Il risultato di tutto ciò è che ormai il mondo del lavoro e delle classi subalterne è quasi del tutto sconosciuto, anche a chi, come noi, vorrebbe trovare proprio in questo mondo il principale referente della propria azione politica. Una situazione, questa, che dipende anche da ragioni interne al nostro modo di fare politica: da una certa abitudine, favorita dalla necessità di tener testa alla macchina ideologica neoliberista, a costruirsi l'immagine consolatoria di una classe operaia sempre uguale a sè stessa; ma soprattutto dal grave allontanamento dalle classi popolari a causa di politiche autoreferenziali e di derive istituzionalistiche.
Da questo discende la decisione di far sì che l'inchiesta divenga una delle modalità normali del rapporto del partito con una società in continua trasformazione, uno dei più importanti mezzi per la ricostruzione del radicamento sociale del partito: nella convinzione che le cose che non conosciamo sono maggiori di quelle che crediamo di conoscere. Una decisione che diviene ancor più importante oggi, quando la crisi accelera e modifica tutte le dinamiche sociali e ci impone di aggiornarci continuamente sulle evoluzioni delle condizioni di vita e delle aspettative di quella che chiamiamo la "nostra" gente. Se, come è giusto, poniamo la ripresa del conflitto come condizione essenziale di una politica di contrasto alla gestione capitalistica della crisi, la comprensione dettagliata del modo in cui i conflitti concretamente si attuano o possono attuarsi è condizione essenziale di una credibile politica dei comunisti.
Da tutto questo è nata l'idea di questa prima inchiesta nazionale sull'atteggiamento dei lavoratori di fronte alla crisi: un tentativo di percepire "in tempo reale" le tendenze dei lavoratori per ricavarne indicazioni sul nostro intervento.
Va detto subito che la prima indicazione riguarda proprio la persistente inadeguatezza del partito rispetto al compito dell'inchiesta, inadeguatezza mostrata dall'ancora insufficiente diffusione e raccolta dei questionari. Si tratta di una carenza comprensibile in un partito che è impegnato, su molteplici fronti, in una dura battaglia politica e che naturalmente fatica a dotarsi di strumenti nuovi: come si suol dire, dobbiamo riparare il motore mentre l'auto è in corsa, e non è affatto semplice. Ma bisogna farlo, e accanto a un "riaggiustamento" dei modi e dei tempi dell'inchiesta, va condotto un serio confronto politico nelle strutture del partito, mirato alla diffusione e alla piena utilizzazione di questo strumento.
Tale confronto può essere facilitato dal fatto che i primi e pur parziali risultati della nostra inchiesta sono già sufficienti ad accendere l'interesse per ulteriori approfondimenti.
Dalle risposte raccolte emergono infatti dei sintomi assai interessanti che, pur se relativi a una parte limitata dei lavoratori (quella più "classica", maggiormente stabile, concentrata in unità produtive medio-grandi, a maggioranza adulta e di sesso maschile), ci dicono cose non scontate che meritano di essere oggetto di verifica e di particolare riflessione politica.
Il dato forse più significativo è che l'ideologia della "guerra tra i poveri" non ha conquistato la parte più combattiva e organizzata della classe: i lavoratori che pensano di rispondere alla crisi scaricandone gli effetti su precari e immigrati, dall'inchiesta risultano essere molti di meno di quelli che puntano su una forte azione comune di difesa. Questo dato è sostanzialmente confermato dal clima registrato in assemblea da vari sindacalisti. Potremo quindi dire che per quanto riguarda il tessuto delle aziende sindacalizzate, ad oggi, non si verifica uno scivolamento significativo verso posizioni da "guerra tra i poveri" che sarebbe quindi un elemento più agito dall'esterno (la Lega Nord) che un dato interno al mondo del lavoro. Procedendo con molta cautela, si tratta quindi di monitorare il fenomeno con attenzione, anche perché su questo punto non abbiamo dati precedenti che permettano di comprendere l'evoluzione delle posizioni corporative e razziste, e sarà necessario controllare costantemente il modificarsi degli atteggiamenti.
Molto interessanti, inoltre, sono le considerazioni sugli strumenti e sugli obiettivi dell'azione collettiva. Quanto agli strumenti emerge una chiara opzione verso un sindacato "forte e unitario", che però non si traduce in un affidamento passivo alle strutture esistenti: di queste infatti si contesta molto più l'arrendevolezza che l'"eccesso" di conflittualità, e parti significative di lavoratori indicano l'esigenza di un rinnovamento, attraverso la creazione di nuovi sindacati o attraverso il rafforzamento di strutture di base. Più tradizionale, e sotto molti aspetti più ovvia, è invece l'individuazione degli obiettivi: la difesa del posto di lavoro viene infatti indicata come obiettivo più importante rispetto all'aumento del salario e al miglioramento delle condizioni di lavoro; le ipotesi di salario sociale sono preferite al rafforzamento della cassa integrazione soprattutto nelle realtà a minore industrializzazione, come quella meridionale. Meno ovvie sono forse le considerazioni sul modo migliore per difendere il salario: pochi sono coloro che puntano sulla contrattazione aziendale (smentendo così l'idea dell'adesione dei lavoratori allo smantellamento del contratto nazionale), maggiore è il numero di coloro che fanno affidamento sulla contrattazione nazionale, ma prevalente è il numero di coloro che indicano come soluzione la diminuzione delle tasse sui redditi da lavoro dipendente. Questo atteggiamento è probabilmente il frutto di più elementi, a partire dalla consapevolezza della propria posizione di scarsa forza nel rapporto contrattuale con la controparte e da una accentuata delega al terreno della politica per la soluzione dei problemi che un tempo venivano affrontati e risolti direttamente sul terreno strettamente sindacale.
Si tratta solo di sintomi, conviene ripeterlo, ma comunque assai interessanti, perché indicano che, probabilmente, divisioni e sfiducia non sono ancora penetrate a fondo in alcuni importanti comparti del lavoro, che una lotta collettiva e unificante è ancora possibile, e che i suoi strumenti e i suoi obiettivi sono in parte univoci, ma in parte sono soggetti a interpretazioni molteplici e a soluzioni differenziate. Ed è in particolare qui che deve situarsi l'intervento del partito, nel selezionare gli obiettivi che abbiano maggiore capacità unificante, nel proporli ai lavoratori sia direttamente sia attraverso l'azione dei nostri militanti sindacali, nell'impegnarsi per modalità democratiche di definizione delle piattaforme.
Certo, nel nostro campione sono sottorappresentate parti importanti del mondo del lavoro (donne, precari, atipici, immigrati, lavoratori delle piccole imprese e lavoratori formalmente autonomi), alcune delle quali sono spesso ritenute più permeabili alle tendenze individualistiche e in senso lato "leghiste". Ma come raggiungere questi lavoratori che, per definizione, sono dispersi nelle più frantumate unità produttive o negli intricati e mobili territori urbani? Saranno necessari, certamente, nuovi accorgimenti analitici, scelte di particolari campioni, ecc. Ma non basterà affinare le tecniche di ricerca: infatti le parti maggiormente disperse e frammentate del lavoro possono essere intercettate solo se e in quanto crescono la presenza e l'influenza politica del partito. Ed anche per questo bisogna insistere sul partito sociale : tra i suoi molteplici effetti, quest'ultimo ha infatti anche quello di costruire, attraverso esperienze mutualistiche che si realizzano più nei territori che nelle imprese, i luoghi in cui tutto il lavoro, anche quello atipico, precario e meno organizzato, può convergere, riconoscersi ed essere riconosciuto. I luoghi in cui, dato il tipo delle questioni affrontate (generalmente esterne al terreno produttivo, e relative piuttosto alla riproduzione: consumo, assistenza, gestione della vita quotidiana) le donne assumono ruoli ancor più incisivi e dunque meglio si prestano all'interlocuzione.
Il partito sociale è già di per sè stesso un iniziale ed elementare momento di inchiesta, perché ci mette in rapporto con persone che da tempo non incontravamo più e con dimensioni che raramente abbiamo frequentato; perché ci permette di conoscere con maggior precisione i bisogni e di far parlare chi, in genere, non ha voce nell'attuale dibattito "pubblico". Allargando ulteriormente le sue reti il partito sociale può, in aggiunta, creare i bacini da cui attingere nuove conoscenze sulla vita, sul lavoro, sulla propensione alla mobilitazione di tutti coloro che costituiscono il fluttuante universo di quel lavoro "mobile" che oggi è particolarmente esposto all'insicurezza e quindi alla propaganda sicuritaria e che domani, se sapremo ben intrecciare inchiesta e azione politica, diverrà la base di un nuovo, diffuso movimento anticapitalista.
domenica 12 aprile 2009
La storia non finisce col capitalismo! Relazione di Fosco Giannini al convegno del 27 marzo scorso.
Care compagne e cari compagni,
care naufraghe e cari naufraghi di una barca rossa che in Italia è assalita oggi dalle onde alte della reazione: noi , che da marxisti ed internazionalisti sappiamo che i confini tra i popoli sono solo convenzioni, segni evanescenti tracciati dai padroni della storia,
noi che sappiamo che il proletariato non ha confini,
noi dobbiamo rialzare la testa.
Se sui nostri mari, infatti, la nostra barca rossa , in questi giorni, traballa, in tante altre parti del mondo ( non solo nel Venezuela bolivarista e socialista di Hugo Chavez, non solo nel Salvador del Farabundo Martì, ma anche in Africa, in Asia ), la barca universale del movimento operaio è tornata ad essere una corazzata rivoluzionaria, una corazzata contro le ingiustizie e l’imperialismo, che solcando i mari dice ai popoli:
la storia non è finita, la fine della storia era solo un’illusione ed una speranza del capitale e così come non era di natura divina l’aristocrazia francese travolta dalla Rivoluzione, così anche il capitalismo non è natura, non è un’emanazione di Dio, ma è solo una transitoria parentesi storica destinata anch’essa ad estinguersi e passare.
Rialziamo la testa, compagne e compagni, noi – i comunisti, le comuniste - siamo nel presente e nel futuro, ed è la stessa, odierna storia che viviamo che conferma il nostro ruolo e ci da speranza.
Oggi questo è tornato ad essere il Paese delle camicie scure, dove la Costituzione nata dalla Resistenza , dalla lotta di Liberazione è calpestata sotto il Tallone di Ferro dei nuovi barbari; dove il Parlamento è ridotto ad un bivacco sordo e muto, tenuto aperto solo per i decreti d’urgenza e dove i parlamentari – come non si vergogna di dire Berlusconi – sono solo dei numeri; dove sono tornate, come nel ventennio fascista, le leggi razziali; dove il razzismo è sollecitato dai servi politici dei padroni per fornire un esercito industriale di riserva – muto, impaurito e collocato stabilmente nel mercato inferiore del lavoro – agli ordini degli stessi padroni, che non vogliono che gli immigrati vadano via ma li vogliono sottomessi dentro le loro fabbriche, come schiavi;
siamo sotto un potere che vuole imporci , in modo tragico e surreale insieme, lo sciopero virtuale ( che vuol dire lavorare senza stipendio e salario) per cui più scioperi e più i padroni sono contenti ;
e dobbiamo dire che se uno sciopero virtuale fosse stato evocato di fronte alla Cgil di Giuseppe Di Vittorio o di Bruno Trentin, con molta probabilità i lavoratori avrebbero riempito le piazze, cinto d’assedio le fabbriche, il Parlamento, le Prefetture : da questa CGIL di Epifani, invece, si è levato per ora solo qualche lieve belato: ci sentiamo di dirlo: Epifani, svegliati, i padroni ridono e gli operai soffrono, svegliati Epifani !
Questo è il Paese dove non vi è più nemmeno il diritto di vivere o di morire, di evitare di divenire un tronco umano sofferente poiché il Papa non vuole e perché gli ipocriti pretini di Berlusconi non vogliono.
E inviamo un saluto fraterno e solidale al companero Ignazio Marino : lui era mio compagno di banco al Senato, siamo amici e so che si diverte ed è contento se lo chiamiamo così: companero Ignazio.
Marino: un grande medico, un cattolico che conduce una battaglia coraggiosa e controcorrente sfidando, come un teologo della Liberazione, non solo le suorine infilzate di Berlusconi, ma anche i parrucconi del cosiddetto Partito Democratico! Coraggio Marino, le forze migliori di questo paese, non solo i comunisti, sono al tuo fianco !
Siamo di fronte ad un governo di destra che allarga i fronti di guerra, si genuflette ancor più al potere militare degli Usa e della NATO e nella sua Finanziaria triplica le spese militari rispetto a quelle ( già pesanti) del governo Prodi; che recupera del fascismo anche le squadracce nere chiamandole ronde; che straccia il Contratto Nazionale di Lavoro, trasformando gli operai delle fabbriche e tutti i lavoratori in contadini dell’ottocento, che -soli di fronte al padrone delle terre - dovevano ringraziare Cristo se quel padrone decideva di tiragli addosso un pezzo di pane;
siamo di fronte ad un dittatore - politico e mediatico - come Berlusconi che per puro spirito di potere si subordina alle spinte più belluine, oscurantiste e reazionarie, come quelle della Lega, e appoggia un federalismo della borghesia del nord che divide ancor più il nostro Paese, che allarga ancor più il baratro sociale tra nord e sud, che divide i ceti agiati del nord dal popolo sempre più vasto dei poveri cristi del Meridione!
Questo è il governo di Berlusconi.
Ma la destra e i padroni che oggi ridono ricordino che questo è anche il Paese della gloriosa lotta antifascista, della Resistenza, della lotta di Liberazione; è il Paese di Antonio Gramsci e di Pio La Torre; è il Paese di Di Vittorio e delle grandi lotte contadine del sud d’Italia; è il Paese dove la classe operaia e il Partito Comunista Italiano hanno costruito, nelle grandi lotte di massa, la democrazia, i diritti e lo stato sociale; è il Paese dove il grande moto del ’68 e le forze comuniste e anticapitaliste esterne al PCI hanno contribuito a costruire un senso comune avanzato, progressista, laico, volto alla trasformazione sociale.
E’ il Paese dove le donne si sono battute per i loro diritti cambiando il mondo attorno a sé, dando un colpo al patriarcato e cambiando, seppur ancora non sufficientemente, ma positivamente anche gli uomini , i comunisti.
Alziamo dunque la testa, e noi stessi ricordiamo, care compagne e cari compagni, che i giorni delle nostre lotte sono appena passati, che le bandiere rosse non sono state ancora nemmeno ripiegate,
che quei giorni sono così vicini che sono ancora cronaca,
che nelle strade e nelle piazze riecheggiano ancora i passi delle nostre battaglie, dei nostri scioperi, delle nostre manifestazioni. Dalle grandi lotte contro la guerra in Jugoslavia all’immenso popolo della pace sceso in piazza, assieme a tanti operai e tanti studenti, assieme a Gino Strada, ad Alex Zanotelli, e milioni di laici, cattolici, comunisti negli ultimi anni; dallo sciopero di tre milioni di lavoratori nel ‘94 alla manifestazione di un milione di lavoratori del 20 ottobre 2007, quella inascoltata dal governo Prodi; dalla manifestazione dei 400 mila compagni e compagne dell’ 11 ottobre 2008, sotto le bandiere unite, felicemente incrociate del PRC, del PdCI, della FIOM, del sindacalismo di base e di altre forze comuniste, anticapitaliste e di movimento, passando per Genova, per il corpo straziato di Carlo Giuliani e per il giovane e grande popolo dei movimenti, passando per la grande iniziativa a favore del popolo palestinese di poco tempo fa a Roma sino alle nuove lotte di questa fase del movimento delle donne, passando per la ripresa delle lotte della CGIL e dei sindacati di base di poche settimane fa e giungendo alla grande Onda odierna del movimento studentesco.
Tutto ci dice che la storia non è finita nemmeno qui, che anche qui Berlusconi non è né l’Unto del Signore né un castigo naturale immutabile. E’ solo un uomo, un padrone, un reazionario puro che incarna una politica di destra e antioperaia che ( se ritroveremo la nostra natura di classe e saremo capaci di ridefinire – nello stesso conflitto sociale e nella ricerca politica e teorica aperta, antidogmatica e rivoluzionaria - il nostro progetto politico ed il nostro senso storico) batteremo!
E’ la stessa, ultima, recentissima parte della nostra storia che ci dice che Berlusconi si può battere se i comunisti e la sinistra non volteranno più le spalle, come hanno fatto, alla loro gente, alla loro vasta classe di riferimento, al loro popolo; se non penseranno più che sono le istituzioni il loro unico terreno politico; se torneranno a credere che sono le piazze, le fabbriche, le scuole, le lotte di massa e di classe i loro terreni privilegiati per l’organizzazione del consenso. Si può vincere se col loro popolo i comunisti e la sinistra ricostruiscono il necessario legame politico, sociale e sentimentale.
Possiamo e dobbiamo ancora lottare e vincere. Ma abbiamo bisogno di una parola, una parola antica e più che mai attuale di Antonio Gramsci : unità ! Unità!
L’unità delle forze comuniste e anticapitaliste, un cuore politico unitario e di massa che sia anche quello pulsante dell’intera sinistra d’alternativa, il cuore di una nuova sinistra vasta che trasformi l’Italia e che dia al movimento operaio complessivo italiano un progetto di trasformazione sociale all’altezza dei tempi e dello scontro di classe in atto.
Un’ unità tra le forze comuniste, anticapitaliste e di movimento che, sola, potrà togliere ogni paura, un unità con la quale, se lotteremo, se la faremo nascere nel conflitto, supereremo anche il vergognoso sbarramento al 4% delle prossime elezioni europee !
Questa manifestazione di oggi è il contributo che vogliamo dare per costruire questa necessaria, possibile ed urgente unità !
care naufraghe e cari naufraghi di una barca rossa che in Italia è assalita oggi dalle onde alte della reazione: noi , che da marxisti ed internazionalisti sappiamo che i confini tra i popoli sono solo convenzioni, segni evanescenti tracciati dai padroni della storia,
noi che sappiamo che il proletariato non ha confini,
noi dobbiamo rialzare la testa.
Se sui nostri mari, infatti, la nostra barca rossa , in questi giorni, traballa, in tante altre parti del mondo ( non solo nel Venezuela bolivarista e socialista di Hugo Chavez, non solo nel Salvador del Farabundo Martì, ma anche in Africa, in Asia ), la barca universale del movimento operaio è tornata ad essere una corazzata rivoluzionaria, una corazzata contro le ingiustizie e l’imperialismo, che solcando i mari dice ai popoli:
la storia non è finita, la fine della storia era solo un’illusione ed una speranza del capitale e così come non era di natura divina l’aristocrazia francese travolta dalla Rivoluzione, così anche il capitalismo non è natura, non è un’emanazione di Dio, ma è solo una transitoria parentesi storica destinata anch’essa ad estinguersi e passare.
Rialziamo la testa, compagne e compagni, noi – i comunisti, le comuniste - siamo nel presente e nel futuro, ed è la stessa, odierna storia che viviamo che conferma il nostro ruolo e ci da speranza.
Oggi questo è tornato ad essere il Paese delle camicie scure, dove la Costituzione nata dalla Resistenza , dalla lotta di Liberazione è calpestata sotto il Tallone di Ferro dei nuovi barbari; dove il Parlamento è ridotto ad un bivacco sordo e muto, tenuto aperto solo per i decreti d’urgenza e dove i parlamentari – come non si vergogna di dire Berlusconi – sono solo dei numeri; dove sono tornate, come nel ventennio fascista, le leggi razziali; dove il razzismo è sollecitato dai servi politici dei padroni per fornire un esercito industriale di riserva – muto, impaurito e collocato stabilmente nel mercato inferiore del lavoro – agli ordini degli stessi padroni, che non vogliono che gli immigrati vadano via ma li vogliono sottomessi dentro le loro fabbriche, come schiavi;
siamo sotto un potere che vuole imporci , in modo tragico e surreale insieme, lo sciopero virtuale ( che vuol dire lavorare senza stipendio e salario) per cui più scioperi e più i padroni sono contenti ;
e dobbiamo dire che se uno sciopero virtuale fosse stato evocato di fronte alla Cgil di Giuseppe Di Vittorio o di Bruno Trentin, con molta probabilità i lavoratori avrebbero riempito le piazze, cinto d’assedio le fabbriche, il Parlamento, le Prefetture : da questa CGIL di Epifani, invece, si è levato per ora solo qualche lieve belato: ci sentiamo di dirlo: Epifani, svegliati, i padroni ridono e gli operai soffrono, svegliati Epifani !
Questo è il Paese dove non vi è più nemmeno il diritto di vivere o di morire, di evitare di divenire un tronco umano sofferente poiché il Papa non vuole e perché gli ipocriti pretini di Berlusconi non vogliono.
E inviamo un saluto fraterno e solidale al companero Ignazio Marino : lui era mio compagno di banco al Senato, siamo amici e so che si diverte ed è contento se lo chiamiamo così: companero Ignazio.
Marino: un grande medico, un cattolico che conduce una battaglia coraggiosa e controcorrente sfidando, come un teologo della Liberazione, non solo le suorine infilzate di Berlusconi, ma anche i parrucconi del cosiddetto Partito Democratico! Coraggio Marino, le forze migliori di questo paese, non solo i comunisti, sono al tuo fianco !
Siamo di fronte ad un governo di destra che allarga i fronti di guerra, si genuflette ancor più al potere militare degli Usa e della NATO e nella sua Finanziaria triplica le spese militari rispetto a quelle ( già pesanti) del governo Prodi; che recupera del fascismo anche le squadracce nere chiamandole ronde; che straccia il Contratto Nazionale di Lavoro, trasformando gli operai delle fabbriche e tutti i lavoratori in contadini dell’ottocento, che -soli di fronte al padrone delle terre - dovevano ringraziare Cristo se quel padrone decideva di tiragli addosso un pezzo di pane;
siamo di fronte ad un dittatore - politico e mediatico - come Berlusconi che per puro spirito di potere si subordina alle spinte più belluine, oscurantiste e reazionarie, come quelle della Lega, e appoggia un federalismo della borghesia del nord che divide ancor più il nostro Paese, che allarga ancor più il baratro sociale tra nord e sud, che divide i ceti agiati del nord dal popolo sempre più vasto dei poveri cristi del Meridione!
Questo è il governo di Berlusconi.
Ma la destra e i padroni che oggi ridono ricordino che questo è anche il Paese della gloriosa lotta antifascista, della Resistenza, della lotta di Liberazione; è il Paese di Antonio Gramsci e di Pio La Torre; è il Paese di Di Vittorio e delle grandi lotte contadine del sud d’Italia; è il Paese dove la classe operaia e il Partito Comunista Italiano hanno costruito, nelle grandi lotte di massa, la democrazia, i diritti e lo stato sociale; è il Paese dove il grande moto del ’68 e le forze comuniste e anticapitaliste esterne al PCI hanno contribuito a costruire un senso comune avanzato, progressista, laico, volto alla trasformazione sociale.
E’ il Paese dove le donne si sono battute per i loro diritti cambiando il mondo attorno a sé, dando un colpo al patriarcato e cambiando, seppur ancora non sufficientemente, ma positivamente anche gli uomini , i comunisti.
Alziamo dunque la testa, e noi stessi ricordiamo, care compagne e cari compagni, che i giorni delle nostre lotte sono appena passati, che le bandiere rosse non sono state ancora nemmeno ripiegate,
che quei giorni sono così vicini che sono ancora cronaca,
che nelle strade e nelle piazze riecheggiano ancora i passi delle nostre battaglie, dei nostri scioperi, delle nostre manifestazioni. Dalle grandi lotte contro la guerra in Jugoslavia all’immenso popolo della pace sceso in piazza, assieme a tanti operai e tanti studenti, assieme a Gino Strada, ad Alex Zanotelli, e milioni di laici, cattolici, comunisti negli ultimi anni; dallo sciopero di tre milioni di lavoratori nel ‘94 alla manifestazione di un milione di lavoratori del 20 ottobre 2007, quella inascoltata dal governo Prodi; dalla manifestazione dei 400 mila compagni e compagne dell’ 11 ottobre 2008, sotto le bandiere unite, felicemente incrociate del PRC, del PdCI, della FIOM, del sindacalismo di base e di altre forze comuniste, anticapitaliste e di movimento, passando per Genova, per il corpo straziato di Carlo Giuliani e per il giovane e grande popolo dei movimenti, passando per la grande iniziativa a favore del popolo palestinese di poco tempo fa a Roma sino alle nuove lotte di questa fase del movimento delle donne, passando per la ripresa delle lotte della CGIL e dei sindacati di base di poche settimane fa e giungendo alla grande Onda odierna del movimento studentesco.
Tutto ci dice che la storia non è finita nemmeno qui, che anche qui Berlusconi non è né l’Unto del Signore né un castigo naturale immutabile. E’ solo un uomo, un padrone, un reazionario puro che incarna una politica di destra e antioperaia che ( se ritroveremo la nostra natura di classe e saremo capaci di ridefinire – nello stesso conflitto sociale e nella ricerca politica e teorica aperta, antidogmatica e rivoluzionaria - il nostro progetto politico ed il nostro senso storico) batteremo!
E’ la stessa, ultima, recentissima parte della nostra storia che ci dice che Berlusconi si può battere se i comunisti e la sinistra non volteranno più le spalle, come hanno fatto, alla loro gente, alla loro vasta classe di riferimento, al loro popolo; se non penseranno più che sono le istituzioni il loro unico terreno politico; se torneranno a credere che sono le piazze, le fabbriche, le scuole, le lotte di massa e di classe i loro terreni privilegiati per l’organizzazione del consenso. Si può vincere se col loro popolo i comunisti e la sinistra ricostruiscono il necessario legame politico, sociale e sentimentale.
Possiamo e dobbiamo ancora lottare e vincere. Ma abbiamo bisogno di una parola, una parola antica e più che mai attuale di Antonio Gramsci : unità ! Unità!
L’unità delle forze comuniste e anticapitaliste, un cuore politico unitario e di massa che sia anche quello pulsante dell’intera sinistra d’alternativa, il cuore di una nuova sinistra vasta che trasformi l’Italia e che dia al movimento operaio complessivo italiano un progetto di trasformazione sociale all’altezza dei tempi e dello scontro di classe in atto.
Un’ unità tra le forze comuniste, anticapitaliste e di movimento che, sola, potrà togliere ogni paura, un unità con la quale, se lotteremo, se la faremo nascere nel conflitto, supereremo anche il vergognoso sbarramento al 4% delle prossime elezioni europee !
Questa manifestazione di oggi è il contributo che vogliamo dare per costruire questa necessaria, possibile ed urgente unità !
sabato 11 aprile 2009
martedì 7 aprile 2009
Perché in Italia la terra uccide più che in Giappone?
da Liberazione di oggi
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=65710&pagina=1&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=452385
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=65725&pagina=20&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=452474
Tonino Perna
La tragedia che ha colpito la regione abruzzese ci pone immediatamente una domanda: quante vite si sarebbero potute risparmiare se le attività umane fossero state più rispettose dell'ambiente e dei codici di sicurezza edili? E' una domanda classica del nostro tempo quando ci troviamo di fronte a queste tragedie e non ci arrendiamo più al Destino cieco e baro. Per secoli, in Europa, di fronte ai terremoti si è invocata la punizione divina come causa prima del disastro, così come per le pandemie ed altre tragedie che l'umanità non riuscendo a spiegarsi trovava facile affidare ad una insondabile logica divina. Ma, dall'era del Lumi e della rivoluzione francese, i grandi progressi compiuti in campo scientifico e tecnologico ci hanno offerto spiegazioni puntuali. Oggi possiamo affermare che sul piano delle conseguenze umane e materiali, le catastrofi naturali non esistono perché si sono trasformate in catastrofi sociali e politiche. In base ai dati degli ultimi due decenni, un terremoto della stessa magnitudo che colpisca il Giappone fa pochi morti e danni materiali, mentre se colpisce la Turchia o l'Italia fa centinaia di morti e cancella interi paesi. Lo stesso avviene con gli uragani che colpiscono, con la stessa intensità, agli Stati Uniti e il Centro America, con esiti profondamente diversi, come ha fatto notare in un pregevole articolo Wolfgang Sachs, direttore del Wuppertal Institute, ponendo con forza la questione della «giustizia ambientale». Lo stesso è avvenuto tre anni fa quando lo tsunami si è abbattuto sulle coste del sud est asiatico provocando una tragedia umana e sociale di immani dimensioni che abbiamo presto archiviato perché ci poneva di fronte a delle precise responsabilità. Ed è questo il punto: terremoti, uragani, alluvioni, sono imprevedibili all'origine, nel tempo e nello spazio, ma non nelle conseguenze che dipendono unicamente da noi, dal tipo di società che stiamo costruendo. Se si pensa a quale montagna di dollari si sta spendendo per salvare le banche, al migliaio di miliardi di dollari che impieghiamo ogni anno per le spese militari, e lo confrontiamo con quanto si spende in sicurezza, prevenzione ed uso sociale della tecnologia, la contraddizione appare stridente ed insostenibile. Se le case venissero costruite con i più moderni criteri antisismici, se si realizzasse una rete di sensori che fanno scattare per tempo l'allarme quando parte uno tsunami o si avvicina un uragano/tifone, se si realizzasse un piano di prevenzione degli incendi forestali fondato sulla responsabilità sociale degli attori, allora avremmo usato il sapere sociale, la tecnologia, ai fini del miglioramento della vita umana: non riusciremo a fermare le catastrofi naturali, ma ne ridurremo al minimo le conseguenze sociali e territoriali.
Ma una società come la nostra, fondata sulla accumulazione infinita del capitale come unico scopo, non ha interesse a utilizzare la tecnologia e le conoscenze scientifiche per salvare delle vite umane, se questa operazione non produce ulteriori profitti. Il vero business è oggi fondato sulla ricostruzione e non sulla prevenzione. Facciamo le guerre anche per questo. Se poi la società oltre che sul profitto è fondata sulla truffa, come nel caso della nostra bella Italia, allora le cose si fanno maledettamente più insopportabili.
La tragedia che ha colpito le popolazioni abruzzesi è la conseguenza diretta di questi due fattori: zero prevenzione e truffe compiute ai danni dei cittadini. Non è un caso che crollino come pere cotte edifici scolastici, ospedali, palazzine popolari. Se potessimo fare un carotaggio del cemento armato usato in queste costruzioni, ci potete scommettere, troveremmo che la qualità è pessima perché chi ha costruito ha pensato solo ad abbattere i costi, magari dopo aver vinto una gara d'appalto con un forte ribasso. E' l'altra faccia delle morti sul lavoro, della strage di operai che si compie sui luoghi di lavoro per contenere i costi di produzione. La sicurezza, quella vera, costa e richiede uno Stato che operi nell'interesse della collettività. Richiede norme e controlli severi. Ma dove sono in questo nostro sventurato paese? L'impresa edile che costruisce è la stessa che porta al Genio Civile un campione del calcestruzzo utilizzato, che dichiara la quantità e qualità del ferro adoperato, una sorta di autocertificazione che nessuno mai controllerà. In queste condizioni ci manca solo qualcuno che invochi il Fato o che faccia le previsioni sulle prossime scosse come il nostro presidente del Consiglio, esperto sismologo che ha naturalmente utilizzato un sondaggio della sua società per saperne di più. O come il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, che di fronte alla morte di un giovane per una frana sull'autostrada, nel mese di marzo, ha dichiarato alla stampa locale: «Dio lo vuole«. Invece di dire: io sono responsabile, insieme alla classe politica di ieri e di oggi, dell'assenza di manutenzione sul territorio, dello sperpero di risorse pubbliche, dello scandalo di un territorio che, come il resto della penisola, è diventato uno sfascio pendulo su un mare inquinato.
Di fronte a questa tragedia lo spazio per il riformismo, il tatticismo, il populismo è finito: solo una rivoluzione sociale e politica ci potrà salvare.
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=65710&pagina=1&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=452385
http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=65725&pagina=20&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=452474
Tonino Perna
La tragedia che ha colpito la regione abruzzese ci pone immediatamente una domanda: quante vite si sarebbero potute risparmiare se le attività umane fossero state più rispettose dell'ambiente e dei codici di sicurezza edili? E' una domanda classica del nostro tempo quando ci troviamo di fronte a queste tragedie e non ci arrendiamo più al Destino cieco e baro. Per secoli, in Europa, di fronte ai terremoti si è invocata la punizione divina come causa prima del disastro, così come per le pandemie ed altre tragedie che l'umanità non riuscendo a spiegarsi trovava facile affidare ad una insondabile logica divina. Ma, dall'era del Lumi e della rivoluzione francese, i grandi progressi compiuti in campo scientifico e tecnologico ci hanno offerto spiegazioni puntuali. Oggi possiamo affermare che sul piano delle conseguenze umane e materiali, le catastrofi naturali non esistono perché si sono trasformate in catastrofi sociali e politiche. In base ai dati degli ultimi due decenni, un terremoto della stessa magnitudo che colpisca il Giappone fa pochi morti e danni materiali, mentre se colpisce la Turchia o l'Italia fa centinaia di morti e cancella interi paesi. Lo stesso avviene con gli uragani che colpiscono, con la stessa intensità, agli Stati Uniti e il Centro America, con esiti profondamente diversi, come ha fatto notare in un pregevole articolo Wolfgang Sachs, direttore del Wuppertal Institute, ponendo con forza la questione della «giustizia ambientale». Lo stesso è avvenuto tre anni fa quando lo tsunami si è abbattuto sulle coste del sud est asiatico provocando una tragedia umana e sociale di immani dimensioni che abbiamo presto archiviato perché ci poneva di fronte a delle precise responsabilità. Ed è questo il punto: terremoti, uragani, alluvioni, sono imprevedibili all'origine, nel tempo e nello spazio, ma non nelle conseguenze che dipendono unicamente da noi, dal tipo di società che stiamo costruendo. Se si pensa a quale montagna di dollari si sta spendendo per salvare le banche, al migliaio di miliardi di dollari che impieghiamo ogni anno per le spese militari, e lo confrontiamo con quanto si spende in sicurezza, prevenzione ed uso sociale della tecnologia, la contraddizione appare stridente ed insostenibile. Se le case venissero costruite con i più moderni criteri antisismici, se si realizzasse una rete di sensori che fanno scattare per tempo l'allarme quando parte uno tsunami o si avvicina un uragano/tifone, se si realizzasse un piano di prevenzione degli incendi forestali fondato sulla responsabilità sociale degli attori, allora avremmo usato il sapere sociale, la tecnologia, ai fini del miglioramento della vita umana: non riusciremo a fermare le catastrofi naturali, ma ne ridurremo al minimo le conseguenze sociali e territoriali.
Ma una società come la nostra, fondata sulla accumulazione infinita del capitale come unico scopo, non ha interesse a utilizzare la tecnologia e le conoscenze scientifiche per salvare delle vite umane, se questa operazione non produce ulteriori profitti. Il vero business è oggi fondato sulla ricostruzione e non sulla prevenzione. Facciamo le guerre anche per questo. Se poi la società oltre che sul profitto è fondata sulla truffa, come nel caso della nostra bella Italia, allora le cose si fanno maledettamente più insopportabili.
La tragedia che ha colpito le popolazioni abruzzesi è la conseguenza diretta di questi due fattori: zero prevenzione e truffe compiute ai danni dei cittadini. Non è un caso che crollino come pere cotte edifici scolastici, ospedali, palazzine popolari. Se potessimo fare un carotaggio del cemento armato usato in queste costruzioni, ci potete scommettere, troveremmo che la qualità è pessima perché chi ha costruito ha pensato solo ad abbattere i costi, magari dopo aver vinto una gara d'appalto con un forte ribasso. E' l'altra faccia delle morti sul lavoro, della strage di operai che si compie sui luoghi di lavoro per contenere i costi di produzione. La sicurezza, quella vera, costa e richiede uno Stato che operi nell'interesse della collettività. Richiede norme e controlli severi. Ma dove sono in questo nostro sventurato paese? L'impresa edile che costruisce è la stessa che porta al Genio Civile un campione del calcestruzzo utilizzato, che dichiara la quantità e qualità del ferro adoperato, una sorta di autocertificazione che nessuno mai controllerà. In queste condizioni ci manca solo qualcuno che invochi il Fato o che faccia le previsioni sulle prossime scosse come il nostro presidente del Consiglio, esperto sismologo che ha naturalmente utilizzato un sondaggio della sua società per saperne di più. O come il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, che di fronte alla morte di un giovane per una frana sull'autostrada, nel mese di marzo, ha dichiarato alla stampa locale: «Dio lo vuole«. Invece di dire: io sono responsabile, insieme alla classe politica di ieri e di oggi, dell'assenza di manutenzione sul territorio, dello sperpero di risorse pubbliche, dello scandalo di un territorio che, come il resto della penisola, è diventato uno sfascio pendulo su un mare inquinato.
Di fronte a questa tragedia lo spazio per il riformismo, il tatticismo, il populismo è finito: solo una rivoluzione sociale e politica ci potrà salvare.
lunedì 6 aprile 2009
Terremoto Abruzzo, oggi non è il tempo delle polemiche ma della solidarietà
Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc-Se
Nei prossimi giorni ci sarà il tempo per verificare le responsabilità sugli effetti del terribile terremoto che questa notte ha sconvolto l'Abruzzo e sugli allarmi di allerta lanciati e non raccolti come pure sulle politiche necessarie per mettere in sicurezza territorio e centri storici italiani, e per evitare che si ripetano simili tragedie. Oggi però l'urgenza è quella della solidarietà con le popolazioni colpite dal sisma e la necessità di portare aiuto e sostegno alla popolazione abruzzese.
Rifondazione comunista ha organizzato una task force di pronto intervento immediato che abbiamo chiamato "Brigate di solidarietà attiva": alle ore 16 di oggi partiranno per l'Abruzzo i primi due gruppi operativi composti da due cucine da campo, squadre di spalatori e un primo invio di cibo, indumenti e medicinali.
Il Prc sta anche organizzando e raccogliendo le disponibilità di famiglie disponibili ad ospitare gli sfollati nelle regioni limitrofe all'Abruzzo. Il punto di riferimento è la Federazione provinciale del Prc di Pescara (via F. Tedesco 8) che funzionera anche come centro di raccolta di aiuti e soccorso. Riferimenti telefonici sono quelli di Marco Fars (334/6976120) e Richi (3393255805) mentre la mail è quella del responsabile del Partito Sociale, Francesco Piobbichi ( piobbico@hotmail.comIndirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ).
Infine, il Prc ha attivato un conto corrente bancario di solidarietà cui inviare gli aiuti economici (Rifondazione per l'Abruzzo, Iban: IT32J312703201CC0340001497)
Rifondazione comunista ha organizzato una task force di pronto intervento immediato che abbiamo chiamato "Brigate di solidarietà attiva": alle ore 16 di oggi partiranno per l'Abruzzo i primi due gruppi operativi composti da due cucine da campo, squadre di spalatori e un primo invio di cibo, indumenti e medicinali.
Il Prc sta anche organizzando e raccogliendo le disponibilità di famiglie disponibili ad ospitare gli sfollati nelle regioni limitrofe all'Abruzzo. Il punto di riferimento è la Federazione provinciale del Prc di Pescara (via F. Tedesco 8) che funzionera anche come centro di raccolta di aiuti e soccorso. Riferimenti telefonici sono quelli di Marco Fars (334/6976120) e Richi (3393255805) mentre la mail è quella del responsabile del Partito Sociale, Francesco Piobbichi ( piobbico@hotmail.comIndirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ).
Infine, il Prc ha attivato un conto corrente bancario di solidarietà cui inviare gli aiuti economici (Rifondazione per l'Abruzzo, Iban: IT32J312703201CC0340001497)
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Rifondazione Comunista sta organizzando Brigate di solidarietà attiva con le popolazioni colpite dal terremoto.
La Federazione Prc di Pescara (via F. Tedesco, 8) funzionerà come centro di raccolta materiali e di accoglienza per gli evacuati.
Singoli o strutture che abbiano la possibilità di accogliere gli sfollati sono pregati quindi di chiamare il numero 085.66788
Chiunque volesse partecipare all'organizzazione dei soccorsi può chiamare:
Federazione Prc Pescara: 085.66788 (accoglienza evacuati)
Richi: 339.3255805 (generi di prima necessità come acqua, pasta, latte UHT, biscotti)
Marco Fars: 334.6976120
Francesco Piobbichi: 334.6883166
o spedire una mail al seguente indirizzo:
piobbico@hotmail.com
Servono generi di prima necessità (acqua, pasta, latte UHT, biscotti), coperte, tende, gazebo e materiale utile alla rimozione delle macerie
ATTENZIONE! Facciamo un appello a tutti coloro che stanno partendo per portare il loro soccorso: non partite senza aver prima chiamato i numeri messi a disposizione, venite attrezzati e soprattutto autosufficienti sia per quanto riguarda il vitto che l'alloggio.
Se volete invece mandare un contributo economico potete spedirlo a:
Conto Corrente Bancario
RIFONDAZIONE PER L'ABRUZZO
IBAN: IT32J0312703201CC0340001497
La priorità assoluta in queste ore è DONARE IL SANGUE.
Potete farlo presso il Dipartimento di Medicina Trasfusionale PO "Spirito Santo"
Via Fonte Romana, 8 - Pescara
tel: 085/4252687
oppure nel Lazio:
AVIS: telefoni: 06/491340 - 45437075 - 44230134
per aggiornamenti o informazioni: www.partitosociale.org
Rifondazione Comunista sta organizzando Brigate di solidarietà attiva con le popolazioni colpite dal terremoto.
La Federazione Prc di Pescara (via F. Tedesco, 8) funzionerà come centro di raccolta materiali e di accoglienza per gli evacuati.
Singoli o strutture che abbiano la possibilità di accogliere gli sfollati sono pregati quindi di chiamare il numero 085.66788
Chiunque volesse partecipare all'organizzazione dei soccorsi può chiamare:
Federazione Prc Pescara: 085.66788 (accoglienza evacuati)
Richi: 339.3255805 (generi di prima necessità come acqua, pasta, latte UHT, biscotti)
Marco Fars: 334.6976120
Francesco Piobbichi: 334.6883166
o spedire una mail al seguente indirizzo:
piobbico@hotmail.com
Servono generi di prima necessità (acqua, pasta, latte UHT, biscotti), coperte, tende, gazebo e materiale utile alla rimozione delle macerie
ATTENZIONE! Facciamo un appello a tutti coloro che stanno partendo per portare il loro soccorso: non partite senza aver prima chiamato i numeri messi a disposizione, venite attrezzati e soprattutto autosufficienti sia per quanto riguarda il vitto che l'alloggio.
Se volete invece mandare un contributo economico potete spedirlo a:
Conto Corrente Bancario
RIFONDAZIONE PER L'ABRUZZO
IBAN: IT32J0312703201CC0340001497
La priorità assoluta in queste ore è DONARE IL SANGUE.
Potete farlo presso il Dipartimento di Medicina Trasfusionale PO "Spirito Santo"
Via Fonte Romana, 8 - Pescara
tel: 085/4252687
oppure nel Lazio:
AVIS: telefoni: 06/491340 - 45437075 - 44230134
per aggiornamenti o informazioni: www.partitosociale.org
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domenica 5 aprile 2009
Le bandiere rosse tornano ad egemonizzare!
Una grande giornata di popolo. Non ci sono altre parole per definire la grandissima manifestazione organizzata dalla CGIL, ieri 4 Aprile 2009, al Circo Massimo di Roma.
Tantissime le bandiere rosse, tantissime le bandiere di Rifondazione Comunista, tantissime quelle con la falce e martello: in questo senso, siamo stati senza dubbio il partito più presente, surclassando le esigue rappresentanze del PD, dell'IdV e di SeL. Inoltre, c'è da segnale la numerosissima presenza di migranti, dei quali, molti portavano in spalla una bandiera del PRC.
Se in molti hanno dubitato del numero di partecipanti fornito dalla CGIL, due milioni e settecentomila, noi per esperienza diretta possiamo dire che c'erano almeno un milione e mezzo, due milioni di persone.
Di questi tempi non si può non essere entusiasti di questo enorme successo. Inoltre, proprio in queste ore, ci giunge un nuovo motivo per essere contenti, cioé il fallimento del tanto declamato convegno di Forza Nuova a Milano, città antifascista premiata con la medaglia d'ora alla resistenza. L'iniziativa, che avrebbe dovuto raccogliere tutto il meglio (sic) della destra radicale europea, ha visto la partecipazione di sole 300 persone.
Dopo tanto scoramento, oggi è un giorno felice!
Tantissime le bandiere rosse, tantissime le bandiere di Rifondazione Comunista, tantissime quelle con la falce e martello: in questo senso, siamo stati senza dubbio il partito più presente, surclassando le esigue rappresentanze del PD, dell'IdV e di SeL. Inoltre, c'è da segnale la numerosissima presenza di migranti, dei quali, molti portavano in spalla una bandiera del PRC.
Se in molti hanno dubitato del numero di partecipanti fornito dalla CGIL, due milioni e settecentomila, noi per esperienza diretta possiamo dire che c'erano almeno un milione e mezzo, due milioni di persone.
Di questi tempi non si può non essere entusiasti di questo enorme successo. Inoltre, proprio in queste ore, ci giunge un nuovo motivo per essere contenti, cioé il fallimento del tanto declamato convegno di Forza Nuova a Milano, città antifascista premiata con la medaglia d'ora alla resistenza. L'iniziativa, che avrebbe dovuto raccogliere tutto il meglio (sic) della destra radicale europea, ha visto la partecipazione di sole 300 persone.
Dopo tanto scoramento, oggi è un giorno felice!
venerdì 3 aprile 2009
giovedì 2 aprile 2009
Solidarietà ai lavoratori della Vallecrati!
La rabbia del lavoratori della Vallecrati è dovuta allo sfruttamento che stanno subendo!
La notizia delle tensioni scoppiate ieri durante un incontro tra gli operai della Vallecrati e i dirigenti del comune di Cosenza, ripresa e amplificata (anche in modo distorto...) da tutti i media locali, non deve far stupire: è l'esatto risultato cui ci stanno portando 20 anni di neoliberismo!
La crisi che stiamo vivendo non è un incidente di percorso, bensì la precisa conclusione cui porta il principio secondo cui poche persone diventano sempre più ricche sfruttando il lavoro delle masse.
Come Rifondazione Comunista da decenni, e ancora di più durante la grande crisi del capitalismo, chiediamo un nuovo modello di sviluppo in cui i lavoratori siano proprietari di quanto producono e partecipino direttamente al profitto che si ricava dal loro lavoro.
In merito alla vertenza Vallecrati, chiediamo che gli operai ricevano immediatamente gli arretrati che gli spettano e che venga chiarito il futuro dell'azienda, tenendo ben presente che la priorità devono essere i posti di lavoro e non il salvataggio dei padroni che hanno portanto la società al fallimento.
Rifondazione Comunista solidale con gli operai della Vallecrati!
mercoledì 1 aprile 2009
Il figlio del Che si iscrive a Rifondazione!
La tessera Prc a Camilo Guevara March
Sabato 28 marzo, al termine di una conferenza organizzata dall'Associazione Italia-Cuba, è stata consegnata la tessera del Partito della Rifondazione Comunista a Camilo Guevara March, curatore della Fondazione "Guevara" a L'Avana.
Camilo è il figlio dell'indimenticabile Ernesto Che Guevara, rimasto nella memoria di tutti, anche per chi comunista non è.
Nell'iscrivere al Prc Camilo Guevara, si è voluto esprimere quel sentimento di speranza che tutti i marxisti hanno verso l'America Latina ed in particolar modo verso Cuba che per decenni è stato il vero ed unico baluardo nel continente americano a resistere all'Imperialismo degli Usa: oggi, quel continente, sta reagendo alla crisi generata dal fallimento del capitalismo reale con decisi cambi di rotta di quei governi, cambi ottenuti con le riforme sociali e la difesa delle fasce più deboli della popolazione, nonché con
la capacità di rilancio delle loro economie. Quel tipo di politica economica che in Europa ed in particolar modo in Italia, viene considerata "cosa vecchia ed inutile".
Nel ricevere la tessera, il compagno Guevara, ha ringraziato per tale onore e si è dimostrato felice,comprendendo l'alto significato che i comunisti di Alessandria gli hanno voluto tributare.
Circolo Prc-Se di Alessandria
Sabato 28 marzo, al termine di una conferenza organizzata dall'Associazione Italia-Cuba, è stata consegnata la tessera del Partito della Rifondazione Comunista a Camilo Guevara March, curatore della Fondazione "Guevara" a L'Avana.
Camilo è il figlio dell'indimenticabile Ernesto Che Guevara, rimasto nella memoria di tutti, anche per chi comunista non è.
Nell'iscrivere al Prc Camilo Guevara, si è voluto esprimere quel sentimento di speranza che tutti i marxisti hanno verso l'America Latina ed in particolar modo verso Cuba che per decenni è stato il vero ed unico baluardo nel continente americano a resistere all'Imperialismo degli Usa: oggi, quel continente, sta reagendo alla crisi generata dal fallimento del capitalismo reale con decisi cambi di rotta di quei governi, cambi ottenuti con le riforme sociali e la difesa delle fasce più deboli della popolazione, nonché con
la capacità di rilancio delle loro economie. Quel tipo di politica economica che in Europa ed in particolar modo in Italia, viene considerata "cosa vecchia ed inutile".
Nel ricevere la tessera, il compagno Guevara, ha ringraziato per tale onore e si è dimostrato felice,comprendendo l'alto significato che i comunisti di Alessandria gli hanno voluto tributare.
Circolo Prc-Se di Alessandria
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