domenica 8 marzo 2009

Lettera a Ferrero sulla crisi economica

http://liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=64256&pagina=19&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=444342

Caro Ferrero, sono un lettore saltuario del giornale del suo partito, ma ho capito che la vostra idea della crisi è molto precisa: si tratta di una crisi molto grave che non potrà far altro che peggiorare. Berlusconi invece tende a minimizzare. A chi dobbiamo dar ragione? L'esperienza quotidiana ci dice che la situazione è davvero seria e che non si vedono, al momento, dei veri spiragli di uscita. Come è possibile che un capo di governo nasconda a se stesso, e soprattutto agli altri la realtà? Avete torto voi, sbagliano i cittadini ed i lavoratori che si basano sulle loro esperienze, o siamo di nuovo di fronte ad un tentativo di truccare le carte? Cordialmente.
Luigi Rutigliano Milano

Caro Rutigliano, io penso che le recenti dichiarazioni di Berlusconi, a cui lei fa riferimento, siano un misto di irresponsabilità e di furberia, perché da un lato il Presidente del consiglio tende a negare l'evidenza e dall'altro cerca di indurre gli italiani a spendere i loro risparmi per far ripartire l'economia. Ossia chiede a ciascuno di noi - dopo anni in cui i redditi da lavoro sono continuamente diminuiti - di avere quella "fiducia" che le banche (che non prestano più soldi) e le imprese (che non investono più) invece non hanno. Un altro modo (oltre alla precarizzazione, alla riforma dei contratti, all'intervento sulle pensioni) per far pagare la crisi a chi non ne porta nessuna responsabilità. Un'altra "furbata" che però non conduce da nessuna parte, perché la consistenza del risparmio privato italiano, dopo anni di compressione dei salari e delle pensioni, non è certo in grado di far fronte ad una crisi di queste dimensioni.

Negli ultimi mesi è stata iniettata nel sistema finanziario e bancario mondiale una somma enorme di denaro che, aggiunta a quella utilizzata per salvataggi diretti di imprese, ammonta ad una cifra - oltre 2mila miliardi di dollari - nettamente superiore a quella ricavata dagli Stati in trent'anni di privatizzazioni, che corrisponde a 1.500 miliardi di dollari. A fronte di questo fiume di denaro, però, i risultati sono assolutamente nulli in termini di ripresa dell'economia reale: oltre alle stime, già pessimiste, del Fmi, ora anche la Bce, generalmente assai prudente, prevede che per quest'anno la contrazione delle economie europee oscillerà tra il 2,2 ed il 3,2% (mentre, fino a pochi giorni fa, si ipotizzava una oscillazione tra lo zero e l'1%!).

Come mai il più grande sforzo finanziario pubblico mai visto (ad eccezione dei periodi di guerra) non riesce ad avere alcun effetto se non quello di salvare i responsabili principali della crisi?
Ciò avviene prima di tutto perché le banche non rimettono in circolo i soldi avuti (direttamente o indirettamente) dagli Stati, e preferiscono metterli al sicuro presso le rispettive banche centrali. Lo fanno perché non si fidano dell'andamento dell'economia reale e perché non si fidano le une delle altre (nessuna di loro sa quanti titoli tossici abbia in mano l'altra e quindi quale sia l'affidabilità del sistema). Le banche non fanno le banche, insomma, ma neanche i governi fanno quello che dovrebbe essere il loro mestiere, visto che non sono riusciti a chiedere e ottenere, come contropartita dei loro massicci interventi, seri e precisi impegni di investimento. Del resto, di che stupirsi? I governanti in questione sono quasi sempre cresciuti nelle banche e nella finanza, ed alle banche ed alla finanza spesso fanno ritorno: non possono quindi permettersi di danneggiarle più di tanto. Basterebbero queste considerazioni per definire epocale la crisi che stiamo attraversando. Ma non c'è solo questo: infatti, anche se il denaro riprendesse a circolare troverebbe di fronte a sé un settore industriale che è in difficoltà perché è spesso attardato su mercati ormai saturi (come quello dell'auto), perché si è abituato a fare profitti attraverso la speculazione finanziaria (anche l'impresa ha a che fare con la finanziarizzazione, e non c'è una netta linea di demarcazione tra impresa "laboriosa" e finanza "speculatrice") e soprattutto perché i salari sono troppo bassi. I bassi salari sono stati il centro delle politiche neoliberiste e l'Italia li ha praticati pesantemente dal decreto di San Valentino di Craxi in avanti, in nome del rendere più competitive le imprese. Quella compressione dei salari praticata per vent'anni a livello mondiale che, se dà ossigeno al singolo capitalista, alla lunga danneggia il capitale nel suo complesso, perché abbatte la domanda.

E' esattamente quanto è avvenuto, infatti quella che viviamo non è la crisi della globalizzazione liberista ma esattamente il frutto di quella globalizzazione. La compressione dei salari che è all'origine della povertà relativa e quindi dell'indebitamento del consumatore statunitense, causa scatenante e non ancora superata della crisi in atto: se invece di costringere i lavoratori Usa ad indebitarsi, e invece di speculare sui loro debiti, si fosse accresciuta la loro domanda attraverso una crescita diretta del loro reddito, probabilmente non saremmo a questo punto.

Come si vede, quindi, non c'è solo la crisi della finanza; e nemmeno solo la crisi delle banche (di tutte le banche, e non semplicemente di quelle più "avventuriste"): c'è soprattutto una crisi interna del settore produttivo che in questi anni è stata tamponata dal ricorso a profitti speculativi ormai impossibili e da una umiliazione dei lavoratori che ormai produce crescenti disagio sociale. Siamo cioè di fronte ad una crisi complessiva del meccanismo di accumulazione capitalistico.

Questa è la realtà che dobbiamo guardare in faccia: per Berlusconi, certamente, non è una realtà tragica, ma per i lavoratori sì. Il fatto è che, nonostante gli importanti mutamenti avvenuti negli ultimi mesi, i rapporti di classe che hanno condotto alla crisi, ovvero il dominio del capitale monetario e l'indebolimento dei salari e dei diritti dei lavoratori, sono ancora sostanzialmente intatti. Ed impediscono quel grande e diretto intervento pubblico a rilancio della domanda sociale e di riconversione ambientale dell'economia, che è l'unica via d'uscita per la crisi. Infatti l'obiettivo di Berlusconi non è l'uscita dalla crisi, che richiederebbe come abbiamo visto una radicale messa in discussione della distribuzione del reddito e dei rapporti di potere. L'obiettivo di Berlusconi è l'utilizzo della crisi al fine di praticare una svolta reazionaria e antioperaia nel paese. L'obiettivo di Berlusconi è la gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale, della guerra tra i poveri. Non a caso si aggredisce il contratto nazionale di lavoro, il diritto di sciopero, la scuola pubblica, lo stato sociale.

In queste condizioni chiediamo la generalizzazione degli ammortizzatori sociali per tutti coloro che perdono il posto di lavoro. Questo però non basta. Occorre praticare una seria redistribuzione del reddito, dall'alto in basso, dalle rendite e dai profitti verso i salari e le pensioni. Per questo chiediamo una politica fiscale di redistribuzione del reddito, che finanzi le politiche di ripresa (oltre che con un debito pubblico che ormai non è più un tabù per nessuno) con una parte significativa delle ingenti ricchezze accumulate in questi decenni. Decenni in cui ci hanno detto che l'arricchimento privato e la riduzione delle tasse sui redditi alti avrebbe portato ricchezza per tutti, perché tutti quei soldi accumulati e sottratti al fisco sarebbero stati reinvestiti produttivamente. Si è visto come è andata a finire. Per questo chiediamo di introdurre una tassa sui grandi patrimoni (sopra 500mila euro), di reintrodurre la tassa di successione per i grandi patrimoni, di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie, di aumentare le aliquote sui redditi al di sopra dei 100mila euro, di rilanciare la lotta all'evasione fiscale. Occorre ricostruire una imposizione fiscale realmente progressiva. Non è solo questione di giustizia sociale ma è la condizione per costruire l'uscita dalla crisi.

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