Posto questo articolo ripreso da Liberazione di oggi che tratta di un problema che mi riguarda in prima persona, quello delle precipitazioni piovose che in questi giorni stanno causando numerose frane nel territorio calabrese. Dico che quanto accaduto mi riguarda direttamente perché proprio stamattina la mia e altre due famiglie hanno dovuto lasciare le proprie case e trasferirsi temporaneamente da amici e parenti a causa del rischio smottamenti presente sulla strada di accesso alle abitazioni, mentre solo io e un altro vicino siamo rimasti nelle nostre rispettive proprietà, a nostro rischio e pericolo, un po’ per controllarle direttamente e un po’ non lasciare soli i nostri animali domestici.
La pioggia di questi giorni è senza dubbio un fenomeno eccezionale, per la quale l’uomo difficilmente può opporvisi, ma come si evince dall'articolo che riporto, la speculazione edilizia (non è il mio caso) e la mancanza di prevenzione da parte delle amministrazioni locali e della protezione civile (è il mio caso!), in territori estremamente a rischio come la Calabria, possono portare a gravi disagi per la popolazione (la chiusura delle strade, delle scuole, l'abbandono temporaneo delle proprie case …) o, purtroppo, a vere e proprie tragedie, come quella avvenuta pochi giorni fa sulla A3, nella quale due ragazzi sono stati travolti e uccisi da una frana caduta sull'autostrada.
Spero che questo mio intervento, nel suo piccolo, possa sensibilizzare i lettori di questo blog al grave rischio che vive il nostro territorio quando è colpito da eccezionali precipitazioni, e, nello stesso tempo, far capire ad amministratori e protezione civile che in questo senso la prevenzione è fondamentale e a volte può anche salvare delle vite umane.
Maltempo e incuria, ancora frane al Sud
Chiusa per 60 km l'A3 Salerno-Reggio
di Roberto Farneti
Sono le 4 di notte, la pioggia è incessante. All'improvviso un'enorme massa di fango e detriti si stacca dal costone che sovrasta Tropea, nota località turistica della costa tirrenica calabrese, provocando una valanga larga cento metri che si abbatte sulla strada provinciale, arrivando fino al mare. Solo per miracolo non si registrano vittime. E' notte anche a Napoli quando si verifica il cedimento di parte della sommità del costone laterale della collina di Posilipo. Una famiglia viene fatta evacuare, mentre la discesa di Coroglio viene chiusa al traffico in entrambe le direzioni.
Sembra la trama di un film del genere catastrofico. E invece è quanto accade in queste ore nel meridione. Il Sud continua a franare ma la colpa non è solo del maltempo. «Nel momento in cui piove per tre mesi di seguito e cadono oltre 700 millimetri d'acqua si scoprono tutte le magagne», spiega da Lamezia Terme il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, poco prima del vertice con il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, i prefetti e i rappresentanti di Comuni e Province.
"Magagne": un altro modo per dire incuria, per sottolineare il mancato rispetto dell'ambiente e del territorio. «In Italia - spiega la Coldiretti - ci sono 5.581 comuni, il 70% dei quali è a rischio idrogeologico. Mille e 700 sono a rischio frana e 1.285 a rischio di alluvione, mentre 2.596 sono in pericolo per entrambe le calamità, con la regione Calabria che si colloca al vertice con il 100% dei comuni coinvolti, mentre per la Campania la percentuale scende all'86%». Una situazione connessa al fatto che «dal 1982 al 2005 sono scomparsi quasi 6 milioni di ettari di suolo agricolo» a causa della cementificazione del territorio.
«Le responsabilità - afferma Bertolaso - vanno identificate. D'altra parte la tutela del territorio e dell'ambiente - osserva - non è stata certamente una delle priorità di nessun governo locale, regionale o nazionale negli anni passati». Una bacchettata bipartisan: di più non ci si può aspettare da un "tecnico" abituato a navigare tra i mari agitati della politica. Poco male: chi vive in quei posti lo sa bene di chi sono le colpe.
Prendi la frana costata la vita mercoledì scorso a due operai di Caltanissetta. «Morti annunciate sulle quali gli inquirenti dovranno andare a fondo per individuare le responsabilità», accusa Italo Tripi, segretario generale della Cgil siciliana. Ieri si è venuto a sapere che l'Ufficio tecnico del Comune aveva intimato ai condomini dell'edificio di via Mario Gori di mettere in sicurezza il muro perimetrale poi abbattuto da una valanga di fango. L'ordinanza risale al 29 ottobre scorso, dopo il sopralluogo dei tecnici. Ma nulla è stato fatto. Il Comune aveva anche dichiarato l'inagibilità dell'area retrostante al condominio a causa dello stato di pericolo grave.
Oggi pomeriggio alle ore 17:30 presso il circolo locale di Rifondazione Comunista si terrà un incontro con i giovanissimi già tesserati lo scorso anno e con quelli interessati al progetto del nostro partito, che con il passare degli anni sta adottando una linea sempre più verde, a differenza delle altre realtà locali dove i soliti schemi affaristici escludono i giovani dalla politica. Io 7 anni fa, sono stato il primo giovane ad entrare in Rifondazione e, successivamente sono stato seguito a ruota dai compagni Camillo, Luciano e Simone che ormai hanno acquisito tanta di quella esperienza che, se volessero, potrebbero farmi le scarpe da un momento all’altro. Comunque, chiunque fosse interessato a partecipare a questo incontro può recarsi all’ora suddetta presso il nostro circolo sito in Viale delle Rimembranze.
Si tiene oggi anche a Luzzi la giornata del tesseramento indetta dal Partito della Rifondazione Comunista.
Si è aderito, appunto, all’iniziativa indetta a livello nazionale e per tutta la giornata i locali della sezione resteranno aperti. Il circolo luzzese infatti è impegnato nel lavoro di rilancio e riorganizzazione del partito con una serie di iniziative politiche che si terranno a partire già dal prossimo febbraio. Tra queste una manifestazione che vedrà arrivare nella cittadina luzzese esponenti di rilievo del Prc.
All’incontro, infatti, saranno presenti l’ex senatore del collegio Fosco Giannini e l’ex capogruppo dei Comunisti Italiani al Senato , Manuela Palermi. C’è da registrare, infine, la decisione dell’intero gruppo dirigente della locale sezione, guidato dal segretario Francesco Altomare, di rimanere all’interno di Rifondazione Comunista. Nel partito luzzese di Ferrero, infatti, non ci sarà alcuna scissione.
A seguire il governatore della Puglia, Nichi Vendola, nella costruzione della nuova sinistra italiana insieme a Sinistra Democratica e Comunisti Italiani, non ci sarà nessuno degli attuali dirigenti locali di Rifondazione. Tutto ciò nonostante il consenso quasi bulgaro ottenuto dalla mozione Vendola nell’ultimo congresso cittadino.
Di seguito riporto una nota ufficiale rilasciata da Marco Ferrando, ex trotzkista di Rifondazione Comunista ed ora leader del (ancora più trotzkista) Partito Comunista dei Lavoratori, le cui riflessioni ivi contenute penso siano per la quasi totalità da condividere. Spesso le riflessioni più centrate provengono da esponenti o personaggi a noi non tanto affini. Compito di un Partito come il nostro dovrebbe essere anche quello di stimolare maggiormente alcune considerazioni e tematiche di natura teorica che trovino un nesso con l'agire quotidiano delle masse. Creare pensiero critico dovrebbe essere compito di ogni buon cittadino, a priori. A maggior ragione di ogni comunista.
Simone De Marco.
LE ILLUSIONI DELL' INVESTITURA DI BARAK OBAMA
(22 gennaio 2009)
agenzie stampa su comunicati PCL
Roma, 21 gen. - (Adnkronos) - «La storia dell’amministrazione Obama sarà la storia della delusione del popolo che lo ha eletto o di chi oggi si illude: dei lavoratori americani, dei pacifisti europei, di tanta parte delle masse povere del mondo. Certo, il ciclo storico di Bush si è chiuso, ed è un gran bene. Ma il governo Obama continuerà ad essere il governo di Wall Street, non di Main Street, come rivela la sua stessa composizione». Lo pensa Marco Ferrando del Pcl. «Quando si dissolverà la gigantesca nuvola di parole, emozioni e colori della festa di Washington, apparirà la cruda realtà -prevede- Banchieri e industriali americani -responsabili del crack- continueranno ad essere beneficiati da enormi regalie pubbliche, a scapito delle promesse elettorali su sanità e pensioni. I pacifisti si troveranno di fronte alla richiesta di nuove truppe europee per la guerra coloniale in Afghanistan. I palestinesi di Gaza -che non si nutrono di parole- continueranno a subire, sulla propria pelle, quell’alleanza strategica tra Usa ed Israele che nega loro il diritto alla terra e alla vita». «È triste osservare in Italia che gli stessi gruppi dirigenti di quella sinistra disfatta che a suo tempo esaltavano Lula, i Jospin, i Zapatero -annunciando ogni volta svolte epocali- oggi si aggrappano alla mitologia di un presidente Usa, alla ricerca di una nuova effimera suggestione -conclude- In Italia e nel mondo, una sinistra vera potrà costruirsi solo in aperta opposizione all’obamismo, fuori da ogni ennesimo incantamento per la cosiddetta borghesia ’buonà, i suoi governi, i suoi presidenti».
(ANSA) - MILANO, 21 GEN - «La storia dell’amministrazione Obama sarà la storia della delusione del popolo che lo ha eletto o di chi oggi si illude: dei lavoratori americani, dei pacifisti europei, di tanta parte delle masse povere del mondo. Certo, il ciclo storico di Bush si è chiuso, ed è un gran bene. Ma il governo Obama continuerà ad essere il governo di Wall Street, non di Main Street». È quanto sostiene il leader del Pcl Marco Ferrando. «Quando si dissolverà la gigantesca nuvola di parole, emozioni e colori della festa di Washington - sottolinea - apparirà la cruda realtà. Banchieri e capitalisti americani responsabili del crac, continueranno ad essere beneficiati da gigantesche regalie pubbliche, a scapito delle promesse elettorali su sanità e pensioni. I pacifisti si troveranno di fronte alla richiesta di nuove truppe europee per la guerra coloniale afgana. I palestinesi di Gaza che non si nutrono di parole e di suoni, continueranno a subire, sulla propria pelle, quella alleanza strategica tra Usa ed Israele che nega loro il diritto alla terra, al cibo, alla vita. È triste osservare in Italia che gli stessi gruppi dirigenti di quella sinistra disfatta che a suo tempo esaltarono i Lula, i Jospin, gli Zapatero - annunciando ogni volta svolte epocali - oggi si aggrappino alla mitologia di un presidente Usa, alla ricerca di una nuova effimera suggestione.In Italia e nel mondo una sinistra vera potrà costruirsi solo in aperta opposizione all’ obamismo, fuori da ogni ennesimo incantamento per la cosiddetta borghesia ’buonà, i suoi governi, i suoi presidenti». (ANSA).
88 anni dopo, la Rifondazione Comunista di Paolo Ferrero Ottantantotto anni fa nasceva a Livorno il partito Comunista d’Italia, sezione dell’internazionale comunista. Dopo la sconfitta del biennio rosso e del movimento di occupazione delle fabbriche, l’incapacità del partito Socialista di dirigere positivamente il movimento di massa veniva sancito da questa rottura. Il movimento operaio italiano non nasceva in quel passaggio, ma li si decise una svolta, si decise il cambiamento del nome: da li in poi, anche in Italia, i rivoluzionari si sarebbero chiamati comunisti. Il cambio del nome nacque dalla necessità di distinguersi dai partiti socialisti. Questi erano stati travolti; prima dall’incapacità di tenere una posizione autonoma dalle varie borghesie nazionali nella gigantesca carneficina che fu la prima guerra mondiale; poi dall’incapacità a definire uno sbocco rivoluzionario alla crisi post bellica. I partiti socialisti si erano rivelati una guida fallimentare per i lavoratori e così, i rivoluzionari, dopo la vittoria in Russia, decisero di segnare nettamente la differenza, addirittura con il cambio del nome. Quaranta anni fa Jan Palach si dava fuoco in piazza Venceslao a Praga per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Quel’invasione, che seguiva di 12 anni l’invasione dell’Ungheria, metteva la parola fine alla primavera di Praga. Chiudeva brutalmente il più importante tentativo di autoriforma avvenuto nei paesi a socialismo reale. I sistemi politici nati con la rivoluzione russa evidenziavano in modo drammatico di essere entrati in contraddizione totale con le aspirazioni che li avevano generati. La speranza di trasformazione sociale che il comunismo aveva portato al punto più alto nel mondo moderno, con una rivoluzione che aveva sovvertito completamente l’ordine sociale, veniva annichilita sotto i cingoli dei carri armati. Per questo il nostro partito oggi si chiama Partito della Rifondazione Comunista. Perché ci sentiamo in piena sintonia con quei rivoluzionari che assaltarono il palazzo d’inverno e che diedero vita al Partito Comunista d’Italia e perché siamo consapevoli che i sogni e le speranze di quei rivoluzionari sono stati negati, calpestati ed offesi a Praga, a Bucarest come a Berlino nel 1953. Rifondazione Comunista, due termini che si sostengono e si qualificano a vicenda. L’uno senza l’altro perdono di significato, non possono esprimere il senso del nostro progetto,sono muti. Rifondazione Comunista non è solo il nome del partito ma il nostro progetto strategico: rendere attuale il comunismo attraverso il suo processo di rifondazione, che matura e cresce interagendo con le soggettività antagoniste. Da qui ripartiamo oggi. Nella consapevolezza che gli ultimi tempi il progetto della rifondazione comunista è stato pesantemente attaccato e messo in discussione da chi ha proposto di abbandonare ogni riferimento al Comunismo. La rifondazione senza il comunismo non è l’approdo naturale della nostra storia ma la negazione radicale della nostra ragione di esistenza. La rifondazione senza il comunismo è la pura riedizione dell’occhettismo, cioè l’innovazione senza principi e la perdita di ogni autonomia politica. Ricordiamo quindi oggi quel lontano 21 gennaio 1921, nella piena consonanza di ideali e di propositi, per proporre il rilancio del progetto della rifondazione comunista. Questo non avviene nel vuoto pneumatico, non avviene nel cielo delle ideologie; avviene nel bel mezzo di una gravissima crisi economica che mostra, una volta di più, il volto distruttivo del capitalismo. Quella in cui siamo entrati è una crisi pesantissima, che durerà a lungo e che cambierà profondamente il nostro modo di vivere. E’ una crisi “costituente” in cui si intrecciano crisi economica, crisi sociale e crisi della politica. Il parallelo storico che salta agli occhi è quello con la Germania della repubblica di Weimar, in cui identità sociali e politiche consolidate si sfaldarono e il disagio e le paure sociali vennero egemonizzate dalla barbarie razzista. Ricostruire una speranza. Ricostruire un efficace conflitto di classe, forme di solidarietà e di mutualismo, evitare le guerre tra i poveri. Far vivere nel conflitto la lotta per le libertà e per l’eguaglianza. Prospettare una uscita da sinistra da questa crisi, in termini di intervento pubblico per la ristrutturazione ambientale e sociale dell’economia e di redistribuzione del reddito e del potere. Queste sono le sfide a cui dobbiamo saper rispondere nella costruzione dell’opposizione. Non si tratta di proseguire come ieri. Rifondazione Comunista non si salva conservandola ma spendendola nella capacità di dare una risposta alla crisi, sommando spirito unitario e determinazione, nella forte sintonia che ci lega alle esperienze latinoamericane. Il Partito Comunista Italiano seppe costruire il suo ruolo e la sua ragion d’essere politica nella lotta partigiana, nell’abbattimento del regime fascista e nella costruzione della democrazia in Italia. Noi oggi vogliamo rilanciare il nostro progetto di rifondazione comunista nella capacità di dare una risposta, in basso a sinistra, a questa crisi.
Mario Tronti
Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all'audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato, come aveva promesso, cammina non sulle acque, ma sull'etere, narrazione di parabola in parabolica, questa volta per messaggini. Vi ricordate l'11 settembre? Nulla sarà come prima. Tutto è stato come prima. Questo è un 11 settembre rovesciato. Di nuovo, «siamo tutti americani». E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare.
Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo. Poi, speriamo sempre che la scintilla infiammi la prateria. Non ci saranno dunque conseguenze? Altroché se ce ne saranno! La soluzione questa volta è stata trovata quasi all'altezza del problema. Quasi: perché la crisi di fase capitalistica è più grave, più tosta, dell'invenzione di immagine, della risorsa simbolica, che si è messa in campo. Ma comunque, questa conta, e come se conta! Lo vediamo in queste ore, in questi giorni. Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono «rinati», come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell'economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. E' questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. Non la spinta dal basso di una partecipazione popolare, con i suoi appassionati volontari, espressione spontanea della vitalità di una meravigliosa democrazia. Questa c'è stata, ma come un'onda provocata, raccolta e orientata verso un volto nuovo di «personalità democratica», che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana «personalità autoritaria». Attenzione. Qui l'accento batte non sugli aggettivi, democratica e autoritaria, ma sul sostantivo, personalità. C'è un problema preciso, teorico e storico: perché la democrazia, al pari del totalitarismo, ha bisogno, per funzionare, dell'idea e della pratica della personalità? Perché si fa il vuoto nelle istituzioni, e nelle organizzazioni, per riempirle poi con un volto? Problema. E un'altra cosa, meno astratta, più empirica. Da dove sono uscite le enormi risorse finanziarie di Obama, che hanno fatto apparire indigente nientemeno che la famiglia Clinton? In che percentuale sono state esse il frutto della mobilitazione dei neri, delle donne, dei giovani? E quali e quante le altre fonti? La mia idea è netta, e la esprimo in modo netto, perché se ne possa lucidamente discutere: Obama ha vinto, perché a un certo punto l'establishment ha scelto Obama. A un certo punto: all'inizio, solo pezzi di esso si erano esposti, i più avvertiti, di fronte al disastro finale di Bush, poi, con l'esplosione della crisi vera, il grosso non ha avuto più dubbi. E il personaggio è volato nei sondaggi, anch'essi non certo spontanei. In democrazia, vince chi riesce a farsi presentare come il prossimo vincitore. Abilità e forza comunicativa aiutando. Il cambio è niente altro che un cambio di leadership, nel tentativo di riacchiappare un'egemonia che scappa. E siccome si tratta di un'egemonia-mondo, ci vuole un global leader. Poteva assolvere a questa funzione il vecchio soldato MacCain? Evidentemente, no. Guardate lo spostamento dell'opinione pubblica mondiale, di destra, di sinistra e di centro, prima e dopo le elezioni americane. Impressionante. Anche qui è un'onda. Per resistere, bisogna come Ulisse farsi legare al palo della nave, visto che non possiamo non vedere e non udire.
La verità è che gli americani sono oggi veramente in tutto debitori dei cinesi. Hanno infatti applicato alla lettera il motto di Deng: non importa se il gatto è bianco o nero, importante è che acchiappi il topo. Miei cari, i topi siamo destinati ad essere noi. Bisogna togliersi dalla testa che il partito democratico sia la sinistra e il partito repubblicano la destra americane. Non sono nemmeno il centrosinistra e il centrodestra, come vorrebbero i nostri ulivisti mondiali. Il bipartitismo perfetto e la perfetta alternanza di governo funzionano soltanto quando ci sono due partiti centrali di sistema. Sì, due diversi bacini di consenso, distribuiti socialmente e territorialmente, due blocchi di interessi tradizionali, molto mobili e trasversali, anche due scale di valori e di diritti, ma il tutto orientato sempre all'uno della grande nazione «eccezionalista».Impallidiscono i nostri nazionalismi europei di fronte a quello americano. Solo che quello non si chiama così. È Impero del Bene, religione democratica universalmente salvifica.
Chi più che un predicatore nero può oggi raccogliere le bandiere che i maledetti neocons hanno lasciato cadere nella polvere della guerra infinita? Se Malcom X diventa Obama, è perché il calderone di fusione ha funzionato alla perfezione. Nessun pericolo. Anzi, una formidabile opportunità. L'America è un luogo dove tutto è possibile: che un nero entri alla Casa Bianca e che diventi quindi un bianco qualunque. La novità c'è. Non è questo il punto. Ma l'arte di disporci dinanzi al nuovo in modo non subalterno, non l'abbiamo forse imparata? Il nuovo non ha un valore in sé, va misurato sulla nostra condizione presente, se siamo in grado di assumerlo e governarlo e piegarlo. Per quanto detto sopra, nei confronti di un cambio di leadership nel bipartitismo americano, io non faccio una scelta strategica, ma tattica. Chi mi conviene che vinca, chi mi lascia più spazio di movimento, chi mi consegna migliore capacità di manovra? Era opportuno uscire dalla grande crisi con Roosevelt, perché così le lotte operaie potevano imporre il compromesso keynesiano. Era giusto allearsi con gli Usa per sconfiggere militarmente il nazifascismo. Si poteva essere kennediani, se avevi alle spalle la forza del Pci e la potenza dell'Urss: non c'era pericolo allora di metterti nell'onda progressista, semplicemente subendola. Anzi ti serviva per innovare nel tuo campo. Il discorso è sempre quello: l'iniziativa di cambiamento del tuo avversario, o sei in grado di utilizzarla, o altrimenti ne rimani vittima. Perché mi sento di dire che non possiamo dirci oggi obamiani? Semplicemente perché siamo deboli. Non c'è in campo nessuna forza alternativa. Questo sarebbe stato il momento di una grande iniziativa del socialismo europeo. Non possiamo dare la supplenza al profeta del nuovo vecchio mondo. Così riconsegni la pratica egemonica, magari passando dall'unilateralismo al multipolarismo, a chi la stava giustamente perdendo. Il modo corretto di porre la questione, parlando politicamente, nel senso specifico del termine, è secondo me il seguente: Obama è adesso la figura nuova che assume il nostro avversario. Va ricollocata e rideclinata una proposta alternativa di organizzazione e di lotta sulla base di questa novità. Si apre un periodo di maggiori difficoltà. Era facile essere contro Bush, sarà difficile essere contro Obama. Si chiudono spazi per le esperienze di movimento, l'unica forma di soggettività emersa negli ultimi anni, non a caso a livello global, sul terreno dei partiti, nazionali, l'intendenza europea seguirà, l'Atlantico si farà più stretto. La luna di miele finirà, ma prima durerà. Tra l'altro, il giovanotto (!) è sveglio, è pragmatico, è cinico, è pigliatutto, ha perfino un pizzico di carisma, è intelligente perché si è circondato di persone mediamente intelligenti. Una machiavelliana presa di potere, perfetta. In questo, chapeau! agli Stati Uniti d'America, gli unici in grado di far ancora tesoro del detto, mitteleuropeo: là dove c'è il massimo pericolo, lì c'è ciò che salva. Aprite il discorso della vittoria. L'incipit: giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d'America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili. «Siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d'America». Che dobbiamo fare? Applaudire, alzare le braccia in segno di saluto, piangere di commozione?
Confesso. Sono ormai arrivato - il tono di questo testo lo documenta - al limite massimo di sopportazione per questo modo impolitico, apolitico, antipolitico di parlare di politica. Una parentesi. Se ho ben capito come vanno le cose del mondo, e a questo punto di lunga età mi pare proprio che sì, ecco: chiunque dice «ricchi e poveri» è mio nemico. Questo è un criterio del politico, una verità teorica assoluta, un punto di orientamento pratico, che consiglio di coltivare in sé come una pietra preziosa. Chiusa parentesi. E vengo invece a un punto di problema, su cui ho qualche incertezza, perché sento che qui c'è un a partire da me, dal mio modo di esistenza, che potrebbe deviare e far sbagliare il giudizio. E chiedo anche qui un contributo di discussione, e magari una capacità avversa di dissuasione. Insomma. Chi sono queste masse? Parlo delle folle di Chicago e di tutta la lunga intensa campagna obamiana. Ma anche di quelle del Circo Massimo, se sono, anche questo è da discutere, più o meno le stesse. Le guardo con curiosità e diffidenza. A me paiono foglie mosse dal vento delle parole e delle immagini, singoli individui collettivamente incantati dal suono del linguaggio, indifferenti, per non dire ostili, alle idee, agli argomenti, alle analisi. Piazze virtuali, un popolo da second life, che non esprime qualcosa, ma vuole essere espresso da qualcuno. Si potrebbe dire che non è una cosa nuovissima. Il Novecento ha visto fenomeni analoghi. Ma, secondo me, c'è una differenza. La nazionalizzazione delle masse, come la socializzazione delle masse, si fondava su idee forti. Ci si riconosceva in una dottrina, si assumeva e si portava un'ideologia. Il culto del capo era l'appartenenza a un campo, l'assunzione di un progetto. Così la massa si faceva soggetto. E poi la razza, o la classe, erano fattori oggettivi. Qui, oggi, non c'è nulla di tutto questo. C'è solo la fascinazione per una narrazione. Obama non rappresenta i neri, rappresenta tutti. Veltroni non rappresenta i lavoratori, rappresenta i cittadini. E dunque queste piazze sono piene di un niente. È un problema serio, forse il più serio. Penso che accanto all'osservatorio sulle élites, dovremmo ragionare intorno a un osservatorio sulle masse. Come riportare dentro questo politico virtuale il principio di realtà?
Da soli, soggettivamente, non ce la facciamo. Ci vuole una scossa sismica di alta intensità, di quelle che fanno saltare i pennini del sismografo. Dire, parlare, della sinistra, piccola o grande che sia, risulta, di fronte alla dimensione del problema, una chiacchiera da bar sul commissario tecnico della nazionale. Ci può aiutare solo la realtà stessa, sempre più ricca, rispetto a noi, di risorse imprevedibili, da scrutare e da utilizzare. Ma quale realtà, o quale pezzo di essa ci conviene che emerga? Qui, il discorso si fa duro, pronunciabile in parte, indicibile per intero. Io, se mai ne ho avuti, a questo punto non ho dubbi: meglio la crisi che lo sviluppo, meglio il conflitto che l'accordo, meglio la divisione aspra del mondo che la sua irenica unità. Sto parlando, realisticamente, del terreno più favorevole a che sorga una soggettività collettiva alternativa. Che non verrà da sola, senza un intervento politico dall'alto, a suggerire e a organizzare.
Stralcio dall'introduzione di Mario Tronti al volume collettivo "Passaggio Obama. L'America, l'Europa, la Sinistra. Una discussione al CRS provocata da Mario Tronti" (Ediesse, pp. 128, euro 9) in uscita a febbraio. I saggi raccolti sono a firma di Rita di Leo, Ida Dominijanni, Mattia Diletti, Luisa Valeriani, Stefano Rizzo e Roberto Ciccarelli. Il libro sarà presentato oggi (Roma, via IV Novembre 119/a, Sala della Pace)
Angelo d'Orsi No, non intendo cominciare dalle ultime notizie da Gaza Hell . Le immagini che da quell'inferno ci giungono - carni martoriate, volti sfigurati, corpi carbonizzati - non debbono essere commentate. Bisogna che esse stesse parlino. Domani, non si potrà assolvere né chi sta perpetrando il massacro, né chi lo sta favorendo da complice o da spettatore.
E poi, quali sono le last news from Gaza ? Non diverse dalle penultime, fatto salvo l'intensificazione di quella che si configura come qualcosa che assomiglia ad una soluzione finale della "questione palestinese". Dopo un embargo totale, che dura da due anni (una delle pagine più infami di Israele), l'attacco è la conclusione (per ora) di un'infamia lunga oltre un sessantennio. Che la leadership politica israeliana e l'Amministrazione statunitense, che da sempre la sorregge, giustifichino questa linea di condotta con la necessità di distruggere Hamas, non stupisce. Né sorprende che i governi di destra siano appiattiti sull'asse Washington-Tel Aviv. Neppure ci dobbiamo strappare le vesti quando sentiamo un Piero Fassino, ministro degli Esteri del "Governo Ombra" della Repubblica Italiana, parlare come il suo omologo in carica. No. Tutto questo non ci stupisce, anche se accresce l'indignazione. Ciò su cui dobbiamo essere intransigenti è invece il silenzio complice dell'élite intellettuale, che dovrebbe essere contraddistinta dalla volontà di capire e di sapere, e dal dovere di suscitare e trasmettere tale volontà. Quello che avvilisce, più ancora delle farneticazioni di una Fiamma Nirenstein, dei commenti di Bettiza, Ostellino, Panebianco, Galli della Loggia; quello che avvilisce è non tanto il loro parlare - prevedibile, e persino già scritto - quanto il tacere altrui; un silenzio distratto o ipocrita; ovvero un balbettio che parla di "eccesso di legittima difesa" da parte degli israeliani; o che pur attribuendo loro qualche responsabilità, le spiega con la sovrappopolazione di Gaza, come se questa fosse una colpa dei suoi infelicissimi abitanti, e dunque ritiene "inevitabile" quell'effetto collaterale chiamato "vittime civili"; o ancora, si adopera, in disinformati o tendenziosi giochi di equilibrio tra gli uni e gli altri, quasi che fosse un match alla pari.
Se le new wars , le guerre del XXI sec., sono caratterizzate dall'asimmetria fra i contendenti, questa di Gaza diverrà per gli studiosi un caso di studio esemplare. Difficile pensare a una tale sproporzione, come testimoniano le cifre: cinque israeliani contro mille palestinesi (ma quanti sono diventati mentre scrivo?), circa metà dei quali sono civili; e occorre aggiungere il computo dei feriti. Quelli palestinesi (diverse migliaia) sono condannati a morire. Gli ospedali, quelli non (ancora) bombardati, sono incapaci di riceverli, e sovente li rimandano a casa, a morire. Mancano medici, farmaci, strumentazioni sanitarie e chirurgiche; mancano energia elettrica, gas, acqua. Ma la differenza abissale è nella capacità offensiva: come si possono paragonare i razzi, quasi sempre artigianali, sparati dai militanti di Hamas (in risposta ai rapimenti dei suoi rappresentanti, agli omicidi mirati del tutto illegali), alla micidiale potenza di fuoco (da cielo, terra, mare) di uno dei più potenti eserciti del mondo (che fa uso tranquillamente di armi vietate)? Né si può continuare a tacere sui giudizi liquidatori applicati ad Hamas, "gruppo terroristico che si è impadronito" di Gaza, dimenticando che questo fu l'esito di un golpe ordito, con la complicità israeliana, da Abu Mazen dopo aver perso le elezioni proprio contro Hamas: e si ignora che questo "gruppo terroristico" ha compiuto negli ultimi tempi un'interessante evoluzione che ce lo rende meno ostico da capire ed accettare, sia pure con le ovvie distanze culturali e ideali che da esso separano. Hamas incarna, lo si dica, la sola vera resistenza all'occupazione. Sta qui la vera, positiva, sproporzione.
Infine, se pure Israele avesse qualche ragione - fingendo di obliterare le due ferite storiche costituite dal 1948 (la costituzione dello Stato ebraico e la contemporanea "catastrofe" dei palestinesi, cacciati dalle loro terre e privati dei loro beni) e dal 1967 (la guerra dei Sei Giorni, con le annessioni di territori da parte di Israele, mai restituiti, e ulteriori espulsioni di abitanti arabi, andati ad accrescere il miserabile esercito dei profughi senza speranza) - ebbene, quelle ragioni di Israele sarebbero da tempo divenute nulle. Non solo per la politica genocidaria verso i palestinesi, ma per il disprezzo delle convenzioni internazionali, delle risoluzioni Onu (oltre 70 condanne per Israele, che risponde centrando con le sue bombe la sede della rappresentanza locale dell'organizzazione), per l'arroganza con cui lo Stato con la stella di Davide si comporta, ritenendo che lo statuto storico di vittime dia agli ebrei il "diritto" di diventare carnefici.
Davanti allo scempio del diritto (quello sancito da leggi internazionali), della morale e della storia (perché si negano in balorde "ricostruzioni sacre" i diritti dei palestinesi su quelle terre), occorre che chi crede nella verità e nella giustizia dica che è ora di finirla con l'uso politico della Shoa. E che una tremenda riproposizione della Storia, in forma rovesciata, vede un popolo perseguitato diventato persecutore. Giustificato dai suoi intellettuali. Un esempio: l'articolo del solito Yehoshua - un campione del "dissenso" interno - per Le Nouvel Observateur e per La Stampa (8 gennaio). E' un testo che va letto per intero, e affidato ai posteri, a dimostrazione che il "tradimento dei chierici" è una costante amara, vergognosa. Ma un passaggio merita una citazione: chi deplora la sproporzione di mezzi tra israeliani e palestinesi, non tiene conto, per Yehoshua, della "capacità di sopportazione e resistenza" di questi ultimi, "infinitamente superiore" a quella dei poveri israeliani. Insomma, ai rozzi arabi, non basta qualche scappellotto, occorre il bastone (e che bastone!).
Involontariamente, però, una verità affiora. La capacità di chi resiste è superiore a quella di chi opprime. Nella storia è sempre stato così. Magari sui tempi lunghi. Ma i popoli sanno aspettare, quando le loro cause sono giuste.
Due appelli del mondo intellettuale (italiano e internazionale) sono sul sito www.historiamagistra.it: le adesioni sono aperte.
Dino Greco è nato il 9 luglio 1952 a Brescia. Ha iniziato la sua attività nel sindacato tessili Cgil a Brescia. Aveva 22 anni, e uno dei suoi primi impegni è stata la sindacalizzazione nelle piccole imprese. Nel 1988 è entrato a far parte della segreteria confederale e nel 1999 è stato eletto segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia, incarico che ha mantenuto per due mandati, fino al 2007. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi: su Liberazione e il manifesto, su Critica Marxista, Carta, Alternative, Rinascita e, come si dice in questi casi, eccetera. Dopo aver lasciato il sindacato alcuni suoi compagni e amici hanno raccolto i suoi scritti e ne è uscito un libro, “Identità, progetto, democrazia” (giugno 2007, ed. Punto Rosso, Collana Varia, pp. 256).
È laureato in filosofia, con una tesi sull'attualità di Jean Jacques Russeau, che tuttora legge e studia. Ama il filone che va da Russeau a Marx, da Gramsci a Sartre.
Al liceo giocava a calcio, poi ha cominciato a occuparsi di lavoro... e non gli è rimasto che seguirlo alla televisione. La sua squadra del cuore è l'Inter.
Alla domanda “sei emozionato?” ci ha risposto: “Senza connessione sentimentale non si va da nessuna parte, ma in questo momento è la preoccupazione che domina”. Dice che bisogna lavorare insieme, con intelligenza e determinazione. E si augura che a Liberazione prevalgano la reciprocità e il confronto, quello diretto, non quello a colpi di comunicati stampa.
Sfogliando su Internet le reazioni al mio ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci 2008), a canto ai commenti positivi e a quelli più critici si notano altri contrassegnati da incredulità: è mai possibile che le infamie attribuite a Stalin e accreditate da un consenso generale siano molto spesso il risultato di distorsioni e a volte di vere e proprie falsificazioni storiche?
A questi lettori in particolare voglio suggerire una riflessione a partire dalla cronaca di questi giorni. E’ sotto gli occhi di tutti la tragedia del popolo palestinese a Gaza, prima affamato dal blocco e ora invaso e massacrato dalla terribile macchina da guerra israeliana. Vediamo come reagiscono i grandi organi di «informazione». Sul «Corriere della Sera» del 29 dicembre l’editoriale di Piero Ostellino sentenzia: «L’articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad». Vale la pena di notare che, pur facendo un’affermazione estremamente grave, il giornalista non riporta alcuna citazione testuale: esige di essere creduto sulla parola.
Qualche giorno dopo (3 gennaio) sullo stesso quotidiano incalza Ernesto Galli della Loggia. Per la verità, egli non parla più di Ahmadinejad. Forse si deve esser reso conto dell’infortunio del suo collega. Dopo Israele l’Iran è il paese in Medio Oriente che ospita il maggior numero di ebrei (20 mila), ed essi non sembrano subire persecuzioni. In ogni caso, i palestinesi dei territori occupati potrebbero solo invidiare la sorte degli ebrei che vivono in Iran, i quali ultimi non solo non sono stati sterminati ma non devono neppure fronteggiare la minaccia del «trasferimento», che i sionisti più radicali progettano per gli arabi israeliani.
Ovviamente, Galli della Loggia sorvola su tutto ciò. Si limita a tacere su Ahmadinejad. In compenso rincara la dose su un altro punto essenziale: Hamas non si limita a esigere «lo sterminio degli ebrei» israeliani, come sostiene Ostellino. Occorre non fermarsi a metà strada nella denuncia delle malefatte dei barbari: «Hamas auspica l’eliminazione di tutti gli ebrei dalla faccia della terra» («Corriere della Sera» del 3 gennaio). Anche in questo caso non viene apportato uno straccio di dimostrazione: il rigore scientifico è l’ultima delle preoccupazioni di Galli della Loggia, al quale però bisogna riconoscere il coraggio di sfidare il ridicolo: secondo la sua analisi, i «terroristi» palestinesi si propongono di liquidare la macchina bellica non solo di Israele ma anche degli Usa, in modo da portare a termine le infamie di cui l’editorialista del «Corriere della Sera» denuncia l’ampiezza planetaria. Peraltro, chi è in grado di infliggere una disfatta decisiva alla solitaria superpotenza mondiale, oltre che a Israele, può ben aspirare al dominio mondiale. Insomma: è come se Galli della Loggia avesse finalmente portato alla luce I protocolli dei Savi dell’Islam!
E come a suo tempo I protocolli dei Savi di Sion, anche I protocolli dei Savi dell’Islam valgono ormai come verità acquisita e non bisognosa di alcuna dimostrazione. Su «La Stampa» del 5 gennaio Enzo Bettiza chiarisce subito il reale significato dei bombardamenti massicci da Israele scatenati dal cielo, dal mare e dalla terra, col ricorso peraltro ad armi vietate dalle convenzioni internazionali, contro una popolazione sostanzialmente indifesa: «E’ una drastica e violentissima operazione di gendarmeria di un Paese minacciato di sterminio da una setta che ha giurato di estirparlo dalla faccia della terra».
Questa tesi, ossessivamente ripetuta, si colloca nell’ambito di una tradizione ben precisa. Tra Sette e Ottocento il mite abate Grégoire si batteva per l’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi: ecco che dai proprietari di schiavi è bollato quale leader dei «biancofagi», i neri barbari e smaniosi di pascersi della carne degli uomini bianchi. Qualche decennio più tardi qualcosa di simile avveniva negli Stati Uniti: gli abolizionisti, spesso di fede cristiana e di orientamento non-violento, esigevano «la completa distruzione dell’istituto della schiavitù»; essi erano prontamente accusati di voler sterminare la razza bianca. Ancora a metà del Novecento, in Sudafrica i campioni dell’apartheid negavano i diritti politici ai neri, con l’argomento che l’eventuale governo nero avrebbe significato lo sterminio sistematico dei coloni bianchi e dei bianchi nel loro complesso.
La leggenda nera in voga ai giorni nostri è particolarmente ridicola: più volte Hamas ha accennato alla possibilità di un compromesso, se Israele accettasse di ritornare ai confini del 1967. Come tutti sanno o dovrebbero sapere, a rendere sempre più problematica e forse ormai impossibile la soluzione dei due Stati è l’espansione ininterrotta delle colonie israeliane nei territori occupati. E comunque, la sostituzione dell’odierno Israele quale «Stato degli ebrei» con uno Stato binazionale, che abbracci al tempo stesso ebrei e palestinesi garantendo loro eguaglianza di diritti, non comporterebbe in alcun modo lo sterminio degli ebrei, esattamente come la distruzione dello Stato razziale bianco prima nel sud degli Usa e poi in Sudafrica non ha certo significato l’annientamento dei bianchi. In realtà, coloro che idealmente agitano I protocolli dei savi dell’Islam mirano a trasformare le vittime in carnefici e i carnefici in vittime.
Non meno grottesche e non meno strumentali sono le mitologie oggi in voga in relazione a Stalin e al movimento comunista nel suo complesso. Si prenda la tesi dell’«olocausto della fame» ovvero della «carestia terroristica» che l’Unione sovietica avrebbe imposto al popolo ucraino negli anni ’30. A sostegno di questa tesi non c’è e non viene apportata alcuna prova. Ma non è neppure questo il punto essenziale. La leggenda nera diffusa in modo pianificato ai tempi di Reagan e nel momento culminante della guerra fredda serve a mettere in ombra il fatto che la «carestia terroristica» rimproverata a Stalin è da secoli messa in atto dall’Occidente liberale in particolare contro i popoli coloniali o che esso vorrebbe ridurre in condizioni coloniali o semicoloniali.
E’ quello che ho cercato di dimostrare nel mio libro. Subito dopo la grande rivoluzione nera che alla fine del Settecento a Santo Domingo/Haiti spezzava al tempo stesso le catene del dominio coloniale e dell’istituto della schiavitù, gli Stati Uniti rispondevano per bocca di Thomas Jefferson, dichiarando di voler ridurre all’inedia (starvation) il paese che aveva avuto la sfrontatezza di abolire la schiavitù. Questa medesima vicenda si è riproposta nel Novecento. Già subito dopo l’ottobre 1917, Herbert Hoover, in quel momento alto esponente dell’amministrazione Wilson e più tardi presidente degli Usa, agitava in modo esplicito la minaccia della «fame assoluta» e della «morte per inedia» non solo contro la Russia sovietica ma contro tutti popoli inclini a lasciarsi contagiare dalla rivoluzione bolscevica. Agli inizi degli anni ’60 un collaboratore dell’amministrazione Kennedy, e cioè Walt W. Rostow, si vantava per il fatto che gli Stati Uniti erano rusciti a ritardare per «decine di anni» lo sviluppo economico della Repubblica Popolare Cinese!
E’ una politica che continua ancora oggi: è noto a tutti che l’imperalismo cerca di strangolare economicamente Cuba e possibilmente di ridurla alla condizione di Gaza, dove gli oppressori possono esercitare il loro potere di vita e di morte, prima ancora che coi bombardamenti terroristici, già col controllo delle risorse vitali.
Siamo così ritornati alla Palestina. Prima di subire l’orrore che sta subendo in questi giorni, il popolo di Gaza era stato colpito da una prolungata politica che cercava di affamarlo, assetarlo, privarlo della luce elettrica, delle medicine, di ridurlo ad una condizione di sfinimento e di disperazione. Tanto più che il governo di Tel Aviv si riservava il diritto di procedere come al solito, nonostante la «tregua», alle esecuzioni extragiudiziarie dei suoi nemici. E cioè, prima ancora di essere invasa da un esercito simile ad un gigantesco e sperimentato plotone di esecuzione, Gaza era già oggetto di una politica di aggressione e di guerra. Sennonché, una concentrata potenza di fuoco multimediale è scatenata soprattutto in Occidente per annientare ogni resistenza critica alla tesi falsa e bugiarda, secondo cui Israele sarebbe in questi giorni impegnata in un’operazione di autodifesa: che nessuno osi mettere in dubbio l’autenticità dei «Protocolli dei Savi dell’Islam»! E’ così che si costruiscono le leggende nere, quella che oggi suggella la tragedia del popolo palestinese (il popolo-martire per eccellenza dei giorni nostri), così come quelle che, dipingendo Stalin come un mostro e riducendo a storia criminale la vicenda iniziata con la rivoluzione d’Ottobre, intendono privare i popoli oppressi di ogni speranza o prospettiva di emancipazione.