Dino Greco
C'è uno straordinario primato che il capitale ha sempre vantato sul lavoro: la sua extraterritorialità, la sua transnazionalità, la sua fantastica rapidità di movimento, che nei tempi della globalizzazione e del trionfo del liberismo-pensiero ha raggiunto il suo acme. Il capitale abbatte ogni frontiera. Il lavoro non vi è mai davvero riuscito. E i conflitti intercapitalistici, fra imprese e poi fra Stati hanno sempre avuto, come conseguenza indiretta, la rottura fratricida fra i lavoratori di quelle imprese e di quei Paesi. Fino all'epilogo estremo. Fino alla guerra, sempre combattuta - per parafrasare Emilio Lussu - "da poveri cristi contro poveri cristi". Tanto quei conflitti che si sono consumati in tempo di pace, tanto quelli passati attraverso la mattanza della guerra, si sono conclusi con colossali processi di "rivoluzione passiva", vale a dire con la restaurazione dei rapporti sociali esistenti, incrinati dalla crisi.
Nella seconda metà del '900, la presenza di un forte movimento operaio e comunista ha obbligato il capitale a compromessi che hanno consentito uno sviluppo democratico progressivo sia pure dentro il modo di produzione capitalistico. Oggi, in una fase di generale implosione della sinistra sociale e politica, non è più così. Con la sola eccezione dell'America latina. Sicché la crisi sistemica più profonda, da ottant'anni a questa parte, del capitalismo e della sua ideologia mercatista, è interamente gestita dal capitale medesimo, dalle classi dominanti. La grande ristrutturazione dell'auto, condotta sull'asse Torino-Detroit dalla coppia Marchionne-Obama ne dà conto con estrema chiarezza.
L'accordo Fiat-Chrysler è la spettacolare rappresentazione di come il capitale si stia salvando grazie alla mano pubblica e dissanguando i lavoratori dell'azienda americana, senza che essi ne ricavino in compenso la benché minima influenza sulle strategie industriali, men che meno sugli assetti proprietari dell'azienda. Anzi, il loro ruolo, come soggetto collettivo, è persino umiliato da quella clausola ingulatoria che impone loro una moratoria di cinque anni sugli scioperi. I lavoratori si immolano, in cambio della garanzia (ma sarà così?) del posto di lavoro, concedendo tutto il resto: ostaggi.
Anche in Europa, che pure viene da un'altra storia, le cose volgono al peggio. L'uso strategico delle delocalizzazioni per mettere stabilimenti e lavoratori in reciproca concorrenza e offrire la sopravvivenza a chi accetta le rinunzie maggiori, in una sorta di asta "a perdere", è largamente praticata.
Non soltanto fra realtà dislocate in Stati diversi (ricordate la Electrolux?), ma anche fra aziende collocate prevalentemente entro i confini di uno stesso Paese (ricordate Marzotto?).
Per questo è sommamente importante che i sindacati metalmecanici italiani e tedeschi stiano provando a non soccombere di fronte alla logica spietata del "mors tua vita mea".
Nell'incontro di ieri l'altro, a Francoforte, Fiom e Ig Metal hanno assunto l'impegno di far causa comune, di scansare il rischio che un eventuale accordo fra Fiat e Opel possa innescare l'ennesima diaspora, l'ennesima contrapposizione fra lavoratori. Riattivare i circuiti della solidarietà, studiare strategie condivise, anche sul complesso terreno del perimetro industriale, delle linee di prodotto, significa attrezzare non soltanto una trincea difensiva, di pura resistenza. E' difficile, perché vi si è costretti da uno stato di necessità. Ma non sono date alternative.
La dimensione dell'iniziativa intrapresa dalla Fiat è planetaria. Abbraccia, oltre agli Usa e al Canada, l'inglese Vauxhall, la svedese Saab, le attività Gm in America latina ed in Sud Africa. E gli stabilimenti Opel disseminati in tutta Europa. E' dunque indispensabile che entri in campo una rappresentanza del lavoro, un interlocutore forte, che tenti di coprire la stessa latitudine. Che si parta dai due Paesi nei quali resiste ancora un solido insediamento sindacale, ispira qualche speranza. Poi c'è la politica. Mentre Barak Obama occupa la scena da dominus. Mentre il governo tedesco è pienamente coinvolto nel destino degli stabilimenti che insistono sul suo territorio, quello italiano è totalmente latitante. Il solo a prender parola è il sottosegretario allo sviluppo economico, Stefano Saglia. Ma lo fa per eludere la richiesta dei sindacati di aprire un tavolo di confronto con l'azienda. «Prematuro», dice. Perché non bisogna disturbare Marchionne, finché le bocce sono in movimento. L'incontro richiesto potrà esserci solo a partita chiusa. Faccia il padrone, che farà senz'altro bene.
Questo e non altro viene dalla immarcescibile vocazione gregaria del governo. Né basta a scuoterne l'ignavia il rischio che la scure possa cadere sugli stabilimenti di Termini Imerese e di Pomigliano. Fanno bene i lavoratori a scendere in campo. E a tenersi uniti. Il primo appuntamento è a Torino, sabato. Tutto il gruppo Fiat mobilitato.
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